Attilio Vazzoler

Attilio Vazzoler – classe 1936 – sabato 30 luglio 2022 – Chiesanuova di San Donà di Piave (VE)

Spiegami il soprannome dei Vazzoler detti Potacio.

Mio nonno paterno Fioravante possedeva sette muli e tra i suoi lavori commerciava il grano. Passava a raccoglierlo nelle case dei contadini, lo caricava sulla schiena degli animali con un basto e lo destinava ai mulini ad acqua per la macinazione. Terminata la trasformazione lo riportava alle famiglie. Per setacciare la farina e togliere la semola in eccesso i miei avi mugnai si imbrattavano del macinato, da qui il soprannome di “Potacio” (pasticcio).

Raccontami qualcosa della tua famiglia di origine.

Mia mamma si chiamava Caterina Baron ed era nata nel 1903 a Musile di Piave.

Mio nonno materno faceva il falegname e aveva la casa dietro il Municipio di Musile, dotata di illuminazione elettrica a 100 candele, ma quando mia madre si sposò venne ad abitare qui a Chiesanuova in una casa dove non arrivava l’elettricità e quindi per illuminarsi utilizzavano il lume a petrolio.

Mio papà si chiamava Attilio come me, era del 1898 e di lavoro faceva il carrettiere, un po’ come gli autotrasportatori di adesso, solo che lui possedeva i cavalli. Da bambino aveva completato la terza elementare per poi iniziare la sua vita lavorativa aiutando il padre Fioravante. A diciotto anni venne arruolato nell’esercito e dovette combattere la Prima Guerra Mondiale come artigliere e per grazia di Dio si salvò.

Mio nonno paterno trainava le barche lungo la restera della Piave Vecchia, partiva dal Taio (Intestadura) con il cavallo e arrivava fino a Caposile. Impossibilitati ad issare le vele in mancanza del vento, chi non possedeva un cavallo trainava i burci a mano. In particolare ricordo due persone, una donna che sulla restera trainava la barca a piedi con l’imbragatura, e un uomo che l’aiutava spingendo il burcio con un remo lungo fino al fondo del fiume. Partiva a spingere la barca dalla prua fino alla poppa, ripetendo l’azione per tutto il tragitto. “Povera gente. Quanta fatica!”
Mio nonno Fioravante era un’affarista. Ci vedeva dentro. Possedeva cavalli e aveva un operaio fisso che lavorava la terra in conto terzi. Con il ricavato del lavoro poteva permettersi di acquistare altri cavalli. Aveva anche un altro uomo che lo aiutava, ma questo veniva pagato con il mangiare a mezzogiorno e un quartièr di farina da consumare alla sera assieme alla sua famiglia. (Attilio descrive il quartier come un recipiente in lamiera alto circa 40 cm. Dal dizionario veneto il quartièr è una misura per cereali corrispondente a un decimo della quarta. La quarta è una parte dello staio e poi del quintale. Corrisponde anche alla quarta parte del braccio veneto – cm 18. Fonte: Dizionario del dialetto trevigiano di destra Piave di Emanuele Bellò).
Del nonno ricordo anche quando mise a disposizione dei contadini un musso con carretto a pagamento, per il tragitto giornaliero Chiesanuova – Sette Casoni (Caorle) e viceversa. Questo agevolò notevolmente i lavoratori, i quali erano soliti partire di buon ora al mattino per percorrere i quattordici km a piedi andata e ritorno.
I miei nonni Vazzoler vivevano al Taio (Intestadura), in una casa baraccata qui vicino, che durante la Grande Guerra, essendo vicina alla prima linea, venne abbattuta. Andarono in affitto da Janna, grande proprietario terriero della zona, e lavorarono quattordicimila metri quadri di terra. Quando Janna decise di vendere tutto, acquistarono questa abitazione con i rispettivi campi. Mio nonno possedeva anche una casa a Musile, una vicinissima al Taio (poi di mio zio) e tre ettari di terra a Millepertiche.

Al Taio avevano una barca che si chiamava Caoletta. Quando era piena di farina la portavano a remi fino Venezia dai Biavarioi (negozi di alimentari. Plurale di Biavarol).

Della Seconda Guerra Mondiale cosa ti ricordi?

Avevo circa sette, otto anni e dormivo nella camera assieme a mio nonno. Quando arrivavano gli aerei a bombardare noi scappavamo in fondo al campo e ci nascondevamo dentro un fossato profondo, ancor oggi presente, che si chiama “Taio de Re”. Mio nonno però non si muoveva dalla casa e mi diceva: “E’ meglio morire dentro casa che dentro a un fosso. Attilio rimani qui con me” – e così mi toccava stare con lui a fargli compagnia.

Il fossato Taio de Re a sud della casa di Attilio Vazzoler a Chiesanuova. Un tempo questo fossato era la prima deviazioni del fiume Piave fatta dalla Serenissima Repubblica di Venezia.

In quel periodo, nella Piave Nuova, proprio di fronte a casa mia (poco dopo l’Intestadura e verso la foce), c’erano due grandi barche, burchi, di proprietà di alcune persone da Mira. Purtroppo spesse volte dovevano far fronte agli attacchi dell’aereo “Pipetto” che li mitragliava. Al termine di queste rappresaglie, noi bambini andavamo a raccogliere nei campi i bossoli di mitragliatrice aerea che cadevano a terra per poi venderli e racimolare un paio di “franchi” (soldi). Raccoglievamo anche i caricatori dei fucili della Prima Guerra Mondiale che qui ce n’erano molti. Vendevamo il tutto ai “Strasse” che passavano per le case gridando: “Strasse, ossi e fero vecio”.
Poco distante dalla mia casa, nel terreno di Mucelli, i tedeschi avevano posizionato provvisoriamente un cannone che sparava verso Cavallino. Per questa ragione e per la nostra incolumità con la mia famiglia siamo dovuti andare per un paio di giorni profughi alle “Case Bianche” (Via case Bianche a Musile di Piave).

Il fratello più giovane di mio padre invece andò a combattere in guerra e rimase lontano da casa ben otto anni. Suo figlio che viveva con noi, non vedendolo più tornare, aveva cominciato a chiamare papà mio padre.

Cosa ti ricordi dai racconti della Prima Guerra Mondiale?

Mio papà mi raccontava sempre che nel giardino di casa c’era una grande buca, dovuta alla deflagrazione di una granata, che dopo la Grande Guerra riempirono con tutti i residuati bellici che avevano recuperato nei campi prossimi alla Piave Vecchia. Fin dopo il conflitto mondiale dalla pompa manuale del pozzo di casa iniziò ad uscire acqua ferruginosa che dissetò anche tutti i vicini di casa fino alla costruzione dell’acquedotto. Se la venivano a prendere con il “bigòl” (bicollo) per poi bollirla.

La casa di Attilio Vazzoler. A destra la pompa dell’acqua.

A mio nonno paterno Fioravante, invece, profugo in un paese lungo il fiume Livenza, che non ricordo il nome, capitò un brutto episodio con due soldati autro-ungarici. Era l’inverno 1917 e questi si erano presentati in casa a prelevare tutte le donne per destinarle a “lavorare” o chissà dove. Mio nonno, nel frattempo, avvertito del loro arrivo, le aveva nascoste per bene in soffitta. I soldati perquisirono tutto l’edificio e nel mentre li stava accompagnando ai piani superiori li scaraventò con i piedi giù dalle scale e si diede a gambe elevate. Amico di tutti, mio nonno si presentò allora dal comandante a chiedere spiegazioni e questi, radunati i suoi soldati in un cortile, lo fece sfilare davanti ai militari per scovare i colpevoli. Fece finta di non riconoscerli e, con questo gesto di generosità, salvò loro la vita.

Cosa ti ricordi della scuola?

Ho fatto la quinta elementare qui a Chiesanuova. La scuola aveva una sola aula (le altre erano sparse per le varie case del paese), la frequentavo ogni due giorni. Quando andavo al bagno il mio maestro insisteva affinchè io leggessi la carta di giornale che poi avrei utilizzato per pulirmi. Era una buona occasione per approfondire la lettura. Si fa per dire bagno. All’epoca non sapevo nemmeno cos’era. Andavamo tutti nel “casotto” in legno fuori casa e i meno fortunati nei campi. Solo a scuola c’era il giornale, mentre a casa la carta igienica erano i cartocci del mais, fin tanto che duravano.
Ricordo che prima del casotto in legno, nel vigneto di casa avevano sagomato il tronco di una pianta d’uva per utilizzarlo come seduta.
D’inverno invece il bagno era nella stalla.
“Che ricordi vuoi avere tu? Sei nato nel bombaso! Non credere, una volta non c’era il lusso che c’è adesso!”

Cosa mangiavate?

Da bambino non ho mai patito la fame e del mangiare non ci si poteva lamentare. In campagna avevamo di tutto: le galline per le uova, il maiale per la carne, la mucca per il latte e il formaggio. L’unica carne che non mangiavamo era quella di cavallo. Ricordo che un giorno un cavallo si ruppe una gamba e dovettero ucciderlo. Non era possibile curarlo e non potevano più farlo tornare al lavoro nei campi. Seppellirono l’animale e dopo diversi anni riesumarono le sue ossa. Queste vennero vendute allo “Strasse” che ci faceva il sapone. Per questo quando passava per le case gridava “strasse, ossi, e fero vecio”.
Qui nel giardino di casa avevamo un “fornel” con sopra un grande “calièron” di rame dove cucinavamo il mangiare per i maiali, preparavamo il sapone e facevamo la grappa. Di quest’ultima ricordo un episodio durante il secondo conflitto mondiale. Nell’attuale asilo di Chiesanuova vi era appostato un commando di tedeschi. Poveri soldati. Erano anche uomini di famiglia. Venivano a portarci il sale arrivando attraverso i campi (mai per le strade principali) e spesse volte, in amicizia, stendevano sopra il tavolo della cucina le foto delle loro famiglie. Mogli e figli. Un giorno mentre mio papà stava facendo la grappa (che era di normale abitudine produrla nelle famiglie dei contadini, ma proibita per il regime), seguendo il profumo dell’aroma del vino, i tedeschi ci capitarono all’improvviso a casa. Mio padre si spaventò tanto credendo si trattasse dei militari delle finanze, ma fortunatamente erano i tedeschi a cui non importava nulla. Mi ricordo che il soldato tedesco si mise le mani in croce e calmò mio padre. Tutto terminò con un paio di bicchierate e risate in allegria.
In un altro episodio invece si presentarono a casa nostra quelli della Todt che volevano a tutti i costi tagliare gli alberi di pioppo nel campo per le loro costruzioni di difesa. Mio padre allora, per impedire l’uso improprio di quella poca legna che aveva a disposizione nel campo, si presentò al commando tedesco di Chiesanuova, parlò con il comandante e ottenne quanto richiesto.

L’ingresso dell’asilo di Chiesanuova, sede del commando tedesco nella Seconda Guerra Mondiale.

A casa mia avevamo un grande vigneto dal quale producevamo circa 110 quintali di vino. Dieci per noi e il resto per la cantina sociale di Ponte di Piave. Quella di San Donà era aperta solo ai Soci. A Ponte di Piave andavamo con la mussa che poteva trainare un carretto di circa 24 quintali e per raggiungere la destinazione il tragitto durava ben quattro ore. Un giorno di ottobre partii nel pomeriggio e raggiunsi Ponte di Piave alle 22.00. Prima di ritornare andai con Gusto Gussor (Montagner) di Musile di Piave a bere un cappuccino e dopo ci mettemmo entrambi in strada per il ritorno. Lui era davanti con il suo musso e io lo seguivo. Ad un certo punto presi sonno, ma la mia mussa, giunta all’incrocio tra l’argine San Marco e la SS14, dove c’era l’osteria di Salmaso, cessò di seguire Gusto e cambiando direzione mi portò a casa. Non solo, invece di fermarsi di fronte la porta della stalla, mi porto di fronte a quella della cucina di casa. Tutto questo discorso te lo dico per farti capire che prima degli anni ’60 per le strade non c’era tutto il traffico che c’è oggi e nel tragitto, dal silenzio che c’era, potevi anche dormire.

Dove hai fatto la leva militare?

Ho fatto il CAR (Centro Addestramento Reclute) ad Albenga (SV) arruolato nell’aeronautica militare, dopo ho fatto un corso a Bolzano per essere promosso nella V.A.M. (Vigilanza Aeronautica Militare), quindi sono andato all’aeroporto militare di Rivolto a Codroipo (UD), poi a quello di Istrana (TV) e infine al San Giuseppe di Treviso.

Attilio Vazzoler è il quinto da sinistra della fila dietro.

Al corso della V.A.M. a Bolzano sono stato anche una notte in prigione poichè ad una interrogazione non avevo risposto a tutte le domande, soddisfacendo il capitano. La cella aveva due tavoli perpendicolari uno con l’altro dove si dormiva tutti assieme. Una coperta a testa, che se non la mettevi sotto il corpo per ammorbidire il letto, non la mettevi sopra per coprirti dal freddo. Ricordo che per essere ammesso a questa organizzazione avevano studiato a fondo la mia famiglia e io non dovevo avere alcun precedente penale. Quando invece uscii promosso dal corso avevo l’agevolazione per entrare in qualsiasi corpo dell’arma.
A Bolzano si mangiava molto bene da ricchi signori, ma mio papà, avendo trascorso la Prima Guerra Mondiale, era convinto che nell’esercito si mangiasse molto male. Per questo motivo mi inviò un vaglia postale (somma di denaro) che arrivò nelle mani del mio comandante, il quale mi chiese spiegazioni interrogandomi per un’ora intera e per poi lasciarmi libero. Nonostante l’ottimo cibo, alla V.A.M. percepivo anche del denaro che poi sperperavo alla sera per stare al gioco con i miei compagni di gruppo. Le razioni di cibo erano abbondanti, ma un giorno ne ricevetti due, una per me e una per il mio compagno di servizio che non era presente. Fatalità mi capitò un’ispezione del generale. Visionata la mia gamella mi disse: “Chiamami il maresciallo di mensa!”. Il generale dopo aver stanziato i soldi per acquistare le gamelle di acciaio, che prima erano in alluminio, voleva che tutti i soldati mangiassero bene e secondo lui la mia razione non era abbondante. Rimasi stupito poichè avevo appena mangiato due belle bisteccone. Questo maresciallo di mensa nel pomeriggio dello stesso giorno, mentre rientrava in caserma con la sua lambretta, si fermò alla sbarra dove prestavo servizio e mi disse: “Grazie per avermi salvato la vita. Se io avessi detto al generale che la tua razione era per errore doppia e quindi scarsa per una sola persona, io sarei finito nei guai”. Li in caserma ci si copriva uno con l’altro.
Nella mensa della caserma potevamo anche scegliere liberamente cosa mangiare. Un venerdì io e quelli del mio gruppo non volevamo mangiare pesce, ma carne. Ci saziarono con delle bistecche, mentre tutti gli altri mangiarono sarde.
Poco lontano dalla nostra caserma c’era una base dell’esercito che ospitava gli aerei Piaggio. I militari di questa base entravano dalla sbarra per andare a mangiare. Con l’occasione a volte ci salivo anch’io per raggiungere la mensa.
Un giorno di ritorno, un’autista del camion mi disse: “Che festa c’è oggi? Abbiamo mangiato molto bene”. Io gli risposi: “Se aspetti la domenica ti danno anche il dolce”. Avevo capito che nell’esercito mangiavano male, se pur i soldi del cibo erano stati stanziati ugualmente sia per l’esercito che per l’aeronautica.

Un altro episodio che voglio ricordare è stato quando, guardiano alla sbarra d’ingresso dell’aeroporto militare, mi si presentò un borghese con un foglio di via per entrare, ma io mi resi conto fin da subito che il documento era falso. Per questa mia azione positiva, il generale Piccolomi mi prese di buon occhio. Fu proprio lui che mi consegnò il congedo. Le sue parole furono: “Non voglio sapere le tue condizioni di dove sei. Qui sei e qui puoi rimanere per sempre”. Io gli risposi “ Signor generale sono figlio unico e i miei genitori mi stanno aspettando”. Il generale si alzò dalla poltrona, dov’era seduto, mi abbracciò il collo e mi disse: “Vai pure dai tuoi genitori”. Se fossi rimasto lì sarei diventato un sottoufficiale e avrei ottenuto alla fine del mio lavoro una pensione da nababbo, ma io non volevo questo. Per me il servizio militare era come stare in guerra
Io della V.A.M., a differenza del soldato generico che portava la bustina, ero saziato bene in tutto e per tutto, ma dovevo farmi il mazzo, tra seguire i funerali, i picchetti d’onore e alla sera, quando rientravano tutti i mezzi militari anche fare il moviere. Ero vestito con le ghette, la cintura bianco e la paletta segnaletica. Rinunciai in breve tempo a fare quest’ultimo servizio, perchè avevo paura che qualche camion mi investisse. Difatti, dopo il via, mi nascondevo dietro un albero. Alla sera arrivavano le autorità e dovevo andare in pista a riceverli e poi con il camion a portarli al cinema. I superiori non facevano nulla, ma io si. “Quel nato d’un can” (maledizione).

A Rivolto invece, assieme a un padovano di nome Libero, dovevamo fare la guardia alla pista dell’aeroporto per quattro ore al giorno. Avevamo una bicicletta per muoverci dove nel bastone era posizionato un mitra (fucile mitragliatore). Secondo le direttive del comandante dovevamo andare avanti e indietro per la pista, che era lunga circa tre chilometri, e per tutto il tempo di guardia. Noi invece andavamo alla fine della pista e ci mettevamo all’ombra a passare il tempo sotto un aereo. Al termine delle quattro ore ritornavamo in bicicletta presso gli alloggi. Un giorno mi capitò un episodio sfortunato. Al ritorno dalla mia solita guardia incontrai un gruppo di soldati che osservavano il tenente pilota d’ispezione, con la fascia tricolore, che sparava con una pistola. Aveva una Berretta calibro 32 con una riduzione calibro 22 ed era propenso al tiro a segno con degli oggetti lanciati in aria dai soldati. Purtroppo dopo il mio passaggio una pallottola di rimbalzo mi colpì. Ancor oggi ne porto la cicatrice. Nell’ospedale militare di Udine, dove mi ricoverarono per la ferita, mi accolsero come se fossi stato il Papa. Mi trovavo in uno stanzone con tanti altri militari, ma a differenza di loro nella mia lavagnetta di annotazione, nella testiera del letto, c’era scritto “vitto speciale”. Ero un raccomandato. Tutti i militare per mangiare dovevano portarsi presso il corridoio principale mentre io ero servito e riverito a letto. Tutti i giorni veniva a farmi visita il tenente d’ispezione con la moglie, il quale mi portava i giornali da leggere e le sigarette. Ad un certo punto nella lavagnetta mi scrissero che dovevo stare a digiuno, ma il tenente, una volta accortosi di questo, fece il putiferio. Terminato il ricovero mi mandarono a casa in convalescenza minima in modo tale da far risultare l’accaduto un qualcosa di piccola entità. In seguito a questo episodio non rientrai più all’aeroporto di Rivolto, ma mi trasferirono a Istrana. Qui a causa della mia ferita dovevo marcare visita e divenuto ormai un habituè mi arrangiavo nel compilare il registro. Il riposo e l’esenzione ai servizi armati durava cinque giorni e con questa scusa passavano anche i mesi. Un giorno mi inviarono a fare una visita speciale all’ospedale militare di Padova, dove mi misero seduto su uno sgabello per controllare i riflessi della gamba. Ritenuto abile tornai di nuovo in caserma, contro la mia volontà che alla fine era quella di tonarmene finalmente a casa. Un giorno l’infermeria si dimenticò di segnarmi il tempo di riposo e con questa scusa ci rimasi per parecchio tempo, senza marcare visita. Il mio superiore si insospettì chiedendomi spiegazioni, ma non aveva modo di punirmi perchè l’errore non era stato fatto da me. Dopo questo episodio mi inviarono a far servizio presso l’aeroporto di Treviso. Qui c’erano due entrate, a nord quella militare di truppa e a sud quella degli ufficiali, sottoufficiale e civili. In questo luogo, che noi chiamavamo “villetta” eravamo in due a prestare servizio alla sbarra per quattro ore al giorno, pagati 1000 franchi all’ora da un certo signore molto ricco chiamato Bidui, amico di famiglia del comandante.

Che lavoro hai svolto dopo il militare?

Il mio primo lavoro dopo il militare fu quello di seguire le caldaie per l’essicazione del legno da Papa a San Donà di Piave. Papa inizialmente produceva persiane in legno, poi proseguì commercializzando legname e acquistando tronchi dall’Indonesia che tagliava in tavole e poi vendeva. Io seguivo la combustione della caldaia, con segatura e gasolio, e il controllo della pressione dell’acqua. Mi recavo al lavoro tutti i giorni da Chiesanuova a San Donà di Piave in bicicletta. A quei tempi le auto in circolazione erano pochissime e non c’era il traffico di oggi. Lavoravo a turni di otto ore, compresi i giorni festivi e venivo pagato 1000 franchi al giorno. Una notevole differenza dall’aeroporto di Treviso dove in un giorno percepivo 4000 franchi. Tornavo a casa dal lavoro il lunedì mattina alle 6.00 e poi ci ritornavo dalle 14.00 alle 22.00. Questo metodo di lavoro proseguì fino a quando subentrarono i primi sindacati e le cose poi cambiarono. Quando arrivai da Papa, nel giugno del 1960, eravamo in pochi operai, ma quando Papa fallì nel 1977, tra impiegati e operai eravamo circa 1200 persone. Prima di lavorare lì avevo fatto una scuola a Treviso dalla quale presi la patente per la conduzione di caldaie di II grado fino a 500 metri. Poi proseguii con un tirocinio presso l’ospedale Civile di San Donà di Piave e infine da Papa. Il processo di produzione del legname consisteva nel sezionare i tronchi per produrre tavole, le quali venivano essiccate, controllate con i raggi X e poi vendute. Questo lavoro era talmente perfetto che il margine di errore era molto basso.
Ogni anno la caldaia che seguivo veniva revisionata dall’ingegnere dell’ANCC. (Associazione Nazionale per il Controllo della Combustione) che la visionava internamente, poi faceva la prova a caldo e controllava che le valvole funzionassero correttamente. “Parliamo di pressioni alte fino a 10 atmosfere. “Avevo in mano una bomba”.
Quando lavoravo da Papa ero precettato, ossia obbligato a lavorare e indispensabile. Le caldaie di fatti non si potevano mai fermare. Quando ci fu la crisi petrolifera degli anni 70′ dove tutti dovevamo attenersi alla regola di circolare per le strade a targhe alterne, io potevo transitare con la mia fiat 600 liberamente e senza alcun vincolo, pur che mi portassi sempre dietro l’atto di precetto.
Un giorno mi capitò di bisticciare pesantemente con il mio responsabile e la mattina seguente, prima di iniziare il mio turno alle 8.00, mi licenziai. Verso le 9.00 il padrone mi chiamò in ufficio per chiedere spiegazioni. In poche parole l’operaio che era di turno il giorno prima di me, dalle 6.00 alle 14.00 e che doveva controllare i motori del seccatoio, una ventina circa, non operò correttamente e ne bruciò ben sette. Quando subentrai io dalle 6.00 alle 14.00 mi accorsi subito dell’accaduto e, sapendo del lungo tempo necessario per cambiarli e della impossibilità del seccatoio di compiere il suo lavoro, decisi di fermare l’impianto e pertanto di bloccare tutta la segheria. Il mio responsabile cominciò ad infierire contro di me incolpandomi del danno e ne uscì una disputa. Lui sapeva benissimo che non era colpa mia, ma voleva proteggere l’altro operaio per lui uno preferito.
Al colloquio con il padrone egli mi chiese se il mio licenziamento era dovuto ad uno stipendio basso, ma io gli risposi che non volevo soldi in più. Mi disse allora: “Io so tutto quello che è accaduto e voglio che tu ritiri il licenziamento”. Così fu. L’operaio che aveva sbagliato venne licenziato e io rimasi.

Una sera mi presentai all’ingresso della fabbrica per iniziare il mio turno di lavoro e di fronte mi si presentarono un gruppo di operai e sindacati. Eravamo nel periodo in cui Papa stava per fallire e volveva lasciare a casa molti operai. In quel momento me la vidi davvero brutta. I presenti mi minacciarono di morte, di buttarmi nel fiume Piave e di spaccarmi le gambe se fossi entrato nella fabbrica a fare il mio dovere. Dovetti tornarmene a casa, ma il giorno dopo il mio padrone mi chiamò in ufficio per chiedere spiegazioni. Voleva sapere chi erano gli operai che mi avevano impedito di entrare in fabbrica, ma io gli risposi di guardarsi le telecamere di sicurezza.
Nel periodo di crisi di Papa rimasi a casa ben due mesi in cassa integrazione. Un giorno di agosto, dopo il mio rientro in azienda, ero in strada con Vito Granzotto, il mio capo. Vidi Mimmo Russo, il capo personale, che mi accenna a salire in ufficio da lui. Raggiunto, mi aprì una pagina del giornale Il Gazzettino dove c’era scritto che cercavano un conduttore di caldaie a Venezia. Mandai quindi la mia domanda di assunzione presso l’indirizzo scritto nel giornale e dopo otto giorni mi chiamarono a colloquio. Era una ditta di nome SIRAM che lavorava in appalto per l’ospedale civile di Venezia. Quel giorno il responsabile mi disse: “Ho da due mesi un’altra domanda di assunzione, da parte del sindacato della ditta Papa, per un tuo collega!”. Mi guardò quindi in faccia, prese quella busta, la mise nel cassetto e poi mi assunse. Posso solo ringraziare chi a quel tempo mi aveva raccomandato.

Attilio Vazzoler di fronte ad una caldaia a Venezia nell’agosto del 1991

A Venezia ci rimasi per ben quindici anni.
Partivo con il treno delle 9.30 da San Donà per iniziare a lavorare alle 13.00. Nel frattempo a Venezia consumavo il pranzo pagato dal datore di lavoro. Anche il treno era pagato. Arrivavo poi a casa alle 22.00. Il giorno successivo mi svegliavo alle 4.17 per poi prendere il treno alle 4.50. Tornavo a casa nel pomeriggio alle 14.00 e alle 18.00 riprendevo il treno e tornavo di nuovo a Venezia. Lo chiamavo “il turno maledetto”. In compenso poi potevo rimanere a casa dai due ai tre giorni di riposo. A volte, pur di prendere dei soldi in più, nei giorni di riposo lavoravo e questi erano considerati straordinari. Quando subentrò in azienda il sindacato mi impedirono di farli.
Lì a Venezia eravamo in cinque operai che ci davamo il turno. Un giorno l’ingegnere della ditta mi disse: “Vazzoler. Dopo il riposo della notte vieni a lavorare?”. In un primo momento gli risposi di si, ma poi mi resi conto che l’ingegnere non aveva avvisato gli altri quattro operai. Per questo motivo non mi presentai. Quando mi chiese spiegazioni io gli risposi che in azienda non dovevo essere considerato meglio degli altri e nemmeno percepire di più, perchè altrimenti gli altri miei colleghi per gelosia mi avrebbero fatto dei dispetti. Andai in pensione dal primo gennaio del 1993 e quando il mio padrone mi invitò a rimanere in azienda ancora un paio d’anni, io gli risposi: “Signor Righetti per me va bene così” e da quel momento smisi di lavorare.

Attilio Vazzoler in pensione nel giardino di casa sua a Chiesanuova.

Didascalia:

La fabbrica dei Papa

La famiglia Papa, originaria di Messina (Sicilia), si inserisce nel contesto urbano di San Donà di Piave, a partire dalla fine dell’ottocento, con una falegnameria che produce strumenti domestici e utili per il lavoro della terra. Durante il periodo bellico della Prima Guerra Mondiale l’azienda famigliare diventa una piccola industria artigianale che partecipa al conflitto producendo cassette per il trasporto di bombe e munizioni. Viene però distrutta quando gli austro-ungarici s’impossessano del territorio della sinistra Piave, ma questo non demoralizza la famiglia Papa, che terminata la guerra ricostruisce la struttura producendo serramenti, suppellettili di cucina, mobili per la casa, imballaggi, ecc. A favorire l’azienda ci sono, la Bonifica del territorio circostante che richiede carri, carriole, palancole, cassoni per il consolidamento dei terreni e portantine e l’edilizia, sia per la ricostruzione della città di San Donà di Piave, che per la sua crescita. La fabbrica inizia quindi un processo continuo di espansone che la porta a diventare la più grande azienda italiana di serramenti e quindi una SPA. Alla fine degli anni ’60 la famiglia Papa comincia ad importare dall’Indonesia il legno ramin, incrementado quindi notevolmente il lavoro e arrivando ad occupare ben 1280 operai e producendo 1600 persiane al giorno. Dal 1971 al 1978 importa in Italia tutto il legname che dovrebbe tagliare nell’arco di venti anni, con navi russe da ventottomila metri cubi ciascuna, inizialmente scaricate a Porto Marghera e successivamente a Monfalcone. All’oscuro dell’Italia, già a partire dal 1970 i Papa esportano in Indonesia notevoli capitali costituendo nel 1971 una seconda azienda, la PTKPE, uguale in tutto e per tutto a quella sandonatese, ma con i costi della manodopera notevolmente inferiori.

Come in tutte le attività del territorio circostante la città di San Donà di Piave, è normale sfruttare gli operai con turni massacranti, senza alcun diritto, privi di norma di sicurezza, senza ferie e nessuna cassa malattie. Non ci sono alternative al lavoro in fabbrica, se non quello di braccianti e mezzadri nella campagna. Molte persone però, tra gli anni ’50 e ’60 emigrano in Lombardia, Piemonte e all’estero in cerca di fortuna. L’agricoltura inoltre è in ginocchio prima della Riforma agraria e quindi si rendono disponibili un gran numero di lavoratori a basso costo, abituati alla fatica. La fabbrica dei Papa quindi sfrutta al meglio questa normalità lavorando giorno e notte e obbligando gli operai agli straordinari, senza alcun compenso, e minacciando il loro licenziamento. L’unica maniera per arrotondare lo stipendio è quella di portare a casa gli scarti della produzione del legno, ossia legna da ardere come combustibile per il riscaldamento. La fabbrica inoltre non ha i servizi igienici e l’acqua corrente, ma solo l’energia elettrica per far funzionare le macchine.

Questo metodo di lavoro Veneto ad un certo punto arriva al limite, tanto da portare nel secondo dopo guerra alla ribellione degli operai e getta le basi per il Sindacato. Nella fabbrica dei Papa i primi scioperi iniziano a farsi sentire già dal 1957, ma vengono subito repressi con dei licenziamenti. Nel 1970 una legge nazionale introduce lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori che dal 1972 favorisce gli scioperi presso la ditta Papa. L’incapacità dei Papa di adattarsi alle nuove leggi nazionali, l’aumento dei costi della manodopera e l’esportazione dei capitali aziendali in Indonesia, portano l’azienda del sandonatese al declino.

Tutti i riferimenti storici sono tratti dal libro di Luciano Babbo, “La saga dei Papa” La verità sul caso che ha diviso sindacato, politica e società civile nella San Donà degli anni ’70, Mazzanti Libri.

Gli stabilimenti della Papa Spa a San Donà di Piave nel 1978. Foto già di dominio pubblico tratta dall’archivio di Luciano Pavan.

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