Il ragazzo di Via Rialto Jesolo

Al telefono con Renzo Mancini – domenica 24 gennaio 2021

(Nell’immagine di copertina è visibile Renzo Mancini lungo Via Rialto Jesolo nell’anno 1952/1953)

Renzo Mancini (classe 1934) è figlio di Ottorino Mancini e Antonia Bergamini, due coniugi di origine polesana trasferitesi ad abitare nella città di San Donà di Piave in seguito all’apertura da parte di Ottorino di un negozio di cioccolato della Venchi Unica (all’angolo fra Via Cesare Battisti e Corso Silvio Trentin e vicino al negozio di stoffe di Pasini). La famiglia, composta anche dai figli Lucia, Sergio e Francesco abita in un primo momento presso la signora Finotto al Foro Boario e successivamente lungo Via Rialto Jesolo, una piccola porzione dell’attuale Via Acquileia. L’abitazione si affaccia su un ampio piazzale ricoperto di pioppi-cipressini che si estende sopra l’argine del fiume Piave anche detto “Arzerini”(l’attuale area del negozio Bergamin). Su questa altura ci abitano le famiglie dei Bottacin, i Rossi e un vecchio reduce garibaldino chiamato “Don Beppi” Menin, il quale costuma scorrazzare i bambini per le vie della città con il suo calesse.

Come si presentano oggi gli Arzerini. Si vedono: sulla destra il negozio rosso di Bergamin, dietro l’hotel Locanda al Piave e sulla sinistra il complesso del Kristall
Le vecchie case degli Arzerini.

Nella palazzina dove alloggia la famiglia Mancini invece ci abitano i Zorzi, il dottor Raimondo Stocchino, il maestro di musica Enrico Segattini (fondatore della Banda dell’Oratorio Don Bosco) e Davanzo. L’abitato è molto tranquillo come tutto il resto della città, ci sono aree in continua espansione e palazzine che ritornano a splendere dopo i tristi avvenimenti della Prima Guerra Mondiale. Una Guerra che ha portato molte sofferenze e della quale ne ha fatto parte anche il padre di Renzo combattendo come giovane ragazzo del ’99 (nato a Contarina di Rovigo nel 1899). Un uomo che ha proseguito poi il servizio militare entrando a far parte del Partito Nazionale Fascista (PNF) e che ha fatto la marcia su Roma nel 1922. Solo la Seconda Guerra Mondiale è riuscita a distoglierlo dal partito poichè non consono alle sue aspettative di vita. Non basta tutto questo per mettergli il cuore in pace, si aggiunge poi una brutta malattia che se lo porta via a soli 45 anni.

Iniziano degli anni difficili per la famiglia Mancini e per i cittadini di San Donà di Piave. Dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943 la città diventa un facile mirino per gli aerei americani, arrivano i nuovi invasori tedeschi e incombe la fame sugli abitanti della città, che l’affrontano fin dall’inizio con il saccheggio della Caserma San Marco (o Tito Acerbo) (1). Non mancano i bombardamenti aerei alleati che diffondono il terrore tra la gente, la quale è costretta a rifugiarsi in luoghi fortuiti, dopo che l’allarme è stato dato dalle campane del duomo. L’insicurezza e la paura portano le famiglie sandonatesi a sfollare dalle proprie abitazioni per dirigersi verso le campagne circostanti. Ciò accade anche per quella di Renzo Mancini che si trasferisce provvisoriamente presso Villa Bortoluzzi a Santa Teresina. Per molti nuclei famigliari San Donà di Piave rimane solamente un luogo dove svolgere la propria attività lavorativa, come avviene per Antonia, che detiene un bar di sua proprietà nel centro cittadino e che raggiunge in bicicletta. La paura di morire da un momento all’altro permane sulle persone come un incubo e non meno per i figli di Antonia che se ne stanno a casa ad aspettarla fino a sera. Un sospiro di sollievo per Renzo che all’imbrunire l’aspetta apparire dallo stradone di Villa Bortoluzzi.

Come si presenta oggi lo stradone sterrato che conduce all’ingresso di Villa Bortoluzzi a Santa Teresina di Noventa di Piave (VE)

“Rimani a dormire da noi. Non tornare a casa col buio” – chiedono i genitori di Renzo la sera del 9 ottobre 1943, a Marzia la loro amica. “No. Domani sono di turno all’ospedale civile di San Donà” – risponde, mentre si allontana da Villa Bortoluzzi a Santa Teresina. Non la si vede più Marzia. Muore sotto il bombardamento dell’ospedale il 10 ottobre 1943. “Una grande macchia di sangue è stata per molti anni visibile sul cornicione di una villa dietro al Comune” – mi dice Renzo – “Persino lì sono volati i pezzi delle persone. Che disgusto” – continua. “Per fortuna abbiamo salvato il pianoforte e la sala da pranzo dalla nostra casa in città. Il resto è stato saccheggiato e la palazzina è andata distrutta” (2).

Villa Bortoluzzi si trova lungo il canale Grassaga. Dal pollaio nelle stalle sono state ricavate tre stanze dove vive Renzo con la sua famiglia. Non si patisce la fame come in città poiché ai contadini non manca nulla. Hanno farina per fare il pane, mais per la polenta, insaccati, vino e grappa. Nell’edificio ci vivono altre famiglie come i fratelli Toni e Beppi Baldo che come lavoro gestiscono i taxi in città e il fattore Pagotto con la sua famiglia. C’è anche un cane di nome Bobbi, reduce di un bombardamento, che quando vede gli aerei passare tutti i mezzogiorno sopra la sua testa comincia a correre intorno alla casa abbaiando a squarciagola. Non mancano i soldati fuggitivi dall’otto settembre 1943, che il signor Pagotto nasconde nel fienile di casa. La famiglia del fattore è composta da sei figli, nati dal primo matrimonio dal quale è rimasto vedovo, e sette figli dal secondo matrimonio, i quali sono: Piero, Cesira, Rina, Giacomo, Giulio, Elisabetta (detta Isetta) che è solita giocare con Renzo, e Giacomo (Gimo) che invece passa il suo tempo con il fratello di Renzo, Sergio. Giulio Pagotto studia in seminario e diventerà un Padre Redentorista.

Villa Bortoluzzi a Santa Teresina di Noventa di Piave (VE)

Nel 1944, nel pieno della seconda guerra mondiale, il padre di Renzo si ammala di una nefrite, che ha trascurato durante gli anni della Prima Guerra Mondiale, una malattia incurabile in quel periodo (in Italia). Antonia si trova costretta a suo malgrado a mantenere la famiglia curando il bar e il negozio di cioccolato del marito. I figli vengono quindi affidati, durante il giorno, alle cure della zia paterna Cesira che per Renzo diventerà una seconda madre. Cesira lo accompagna anche a letto raccontandogli tutte le sere le più svariate storie. Sono favole che finge di leggere da un libro, ma che in realtà escono dalla sua fantasia. I giorni di malattia del padre Ottorino trascorrono silenziosi, ma pur sempre difficili. Il nome della moglie Antonia viene invocato tantissime volte nell’arco della giornata e per Renzo rimarrà un triste ricordo. Non mancano le cattive sorprese come quella volta che in casa si sono presentati un gruppetto di giovani partigiani affamati. Saziati dai contadini e non ancora contenti vogliono requisire la bicicletta di Antonia, l’unico mezzo di trasporto verso la città, lontana otto km. Antonia scoppia in lacrime e conduce i ragazzi in una camera dove il marito se ne stà disteso moribondo su un letto. Quei giovani ragazzi nel vedere la triste scena si raddrizzano sull’attenti e con un saluto speciale, che Renzo ricorderà per tutta la vita, lasciano in pace la famiglia.

Ottorino Mancini. Foto di Renzo Mancini

Le incursioni aeree continuano e anche i paesi limitrofi alla città vengono toccati dalle bombe. A Santa Teresina ci si nasconde nei fossi. Dal cielo vengono gettate persino le immondizie che cadono sul cortile di Villa Bortoluzzi. Renzo si opprime e non vuole più mangiare. Sarà la mamma a condurlo dal dottore in Villa Ancillotto, dove è stato allestito un ospedale provvisorio, e sarà lei ad aiutarlo a tornare alla vita di tutti i giorni dandogli da mangiare con calma alla sera dopo il lavoro. L’angoscia degli aerei e della guerra ricade su tutti i membri famigliari. In particolare sulla sorella Lucia. Un giorno, mentre è di ritorno da Grassaga, dove svolge delle lezioni di ripetizioni di latino dal parroco, due piloti americani insistono su di lei svolazzando sulla sua testa e la rincorrono fino all’abitazione. La madre Antonia vedendola impaurita apre di colpo il balcone al piano terra, posiziona una sedia sul marciapiede e aiuta Lucia a balzare più velocemente dentro la stanza di casa. I piloti però non si danno per vinti e una cosa simile accade anche a Renzo verso il termine della guerra. Un giorno si affaccia dalla finestra incuriosito dai caccia che si avvicinano dal canale a bassa quota. I piloti lo avvistano e cominciano a sparare una ventagliata di colpi verso l’edificio. Demoliscono l’intonaco, feriscono una mucca nella stalla, ma salvano la vita a Renzo, mezzo metro sotto il suo busto.

Una sera di epifania del 1945 arrivano in Villa Bortoluzzi dei soldati tedeschi con due carrette trainate da grandi cavalli. Sono uomini malandati, brutti e con una fame arretrata da tempo. I contadini li saziano e questi si ubriacano per poi finire a dormire nel granaio. Il mattino seguente Antonia, pronta per recarsi al lavoro, scopre sopra al tavolo della cucina tutto l’armamento abbandonato dai soldati. Chiama quindi il maggiore per permettere lo sgombero delle bombe a mano e dei fucili. E’ un signore gentile che parla molto bene l’italiano e nel vedere il pianoforte inizia a suonarlo. Convinto di non far più ritorno a casa consegna alla madre di Renzo una valigetta in pelle contenente i suoi effetti personali, con lo scopo di rimpatriarla al termine del conflitto. Antonia provvederà alla spedizione che purtroppo ritornerà indietro senza alcun esito.

Mentre il giorno è perseguito dai caccia americani, la notte è terrorizzata da “Pippo”, l’aereo fantasma che al chiarore di una piccola luce sgancia il suo carico di bombe. Il suo è un rumore sordo. Per gli abitanti di Villa Bortoluzzi lo spettacolo della notte è rappresentato dalle battaglie di questi aerei che solitamente bombardano le passerelle fatte dai Tedeschi durante il giorno, per attraversare il fiume Piave a Ponte di Piave. Non manca quella volta che un aereo è scoppiato in cielo come un grandissimo fuoco d’artificio colpito da non si sa cosa, oppure l’aereo tedesco “Cicogna”che alla fine guerra è stato colpito da un aereo americano. Non bastano però questi mezzi volanti a far paura, si aggiungono pure le pallottole della contraerea stanziata vicino a Ceggia. Quei proiettili che devono scoppiare ad una certa altezza, molte volte finiscono la loro corsa nel cortile di Villa Bortiluzzi. E’ tutto un susseguirsi di eventi sconvolgenti che la mente di Renzo non dimenticherà mai.

Il termine della guerra però è un barlume di speranza e tutto ricomincia piano, piano. Gli sfollati ritornano nelle loro case come la famiglia di Renzo che se ne ritrova priva. E’ Zaramella con il suo camion a riportarli in città. Vanno quindi a vivere nella casa di Bressanin in Via Rialto Jesolo. E’ un edificio con giardino dal quale si accede da un grande cancello e percorrendo un viottolo coperto. Confina con il cortile dei Marusso che sono una famiglia numerosa. Tra i nomi ricordati da Renzo ci sono Enrico e Giulio (che è diventato poi consigliere comunale in città e uno dei fondatori del rugby sandonatese). C’è la sorella più grande che costuma fare il bagno ai fratelli con la gomma, dopo averli messi tutti in riga.

E’ velocissimo per Renzo il tempo di fare amicizia con i bambini del vicinato. Si passano i pomeriggi lungo la golena del Piave lì vicino. Lo si raggiunge risalendo di fretta la stretta rampa che porta anche alla località Sabbioni. Sono le “stradee” (piccole strade). Anche se la guerra è appena terminata gli Alleati liberatori non sono ben organizzati. Lasciano i prigionieri tedeschi a gareggiare con le loro lance sul fiume Piave e a vendere il materiale dell’esercito americano al banco nero. I Tedeschi sono sistemati provvisoriamente dentro la golena a valle del ponte della Vittoria. Lì in quel luogo è stato allestito un campo di prigionia. Mamma Antonia per mandare avanti il negozio del marito compra dagli americani i barili di cioccolata sottratti a loro volta dai depositi militari. Dalla Venchi Unica non arriva purtroppo nulla. Non si può andare avanti in questo modo. Renzo è incuriosito da questi americani. Un giorno gli capita di vedere un soldato di colore che finisce fuori strada con la sua jeep e per non recuperare il mezzo preferisce incendiarlo. Cose da matti. Più tragica è quella volta che invece riceve uno ceffone da un soldato tedesco.

Renzo:“un giorno mi è capitato di vedere un soldato tedesco amoreggiare con una ragazza nel luogo dove noi passavamo solitamente il tempo libero. Per cercare di allontanarlo abbiamo cominciato a lanciargli contro delle zolle di terra, ma ad un certo punto si è infuriato e ha cominciato ad inseguirci. Scappando mi sono impigliato con la camicia nel filo spinato in un recinto e quando il tedesco mi ha raggiunto l’ho minacciato con un coltello da cucina. Ho ricevuto un “patton” (ceffone) talmente forte che lo sento tuonare sulla faccia ancor oggi. Da allora per paura della reazione delle mamme di noi bambini non l’ho più visto”.

I colpi di scena non finiscono qui. Se durante la guerra la famiglia di Renzo ha passato le pene dell’inferno con i partigiani, i tedeschi e gli aerei americani, al termine della guerra si sono messi i comunisti. Difatti un giorno quest’ultimi si sono presentati nel bar di Antonia per requisirlo e farne la loro sede. La sola colpa della madre di Renzo è stata quella di aver sposato un ex fascista. Antonia però non si è data per vinta, ha preso il treno e si è diretta verso Roma dove ha incontrato Togliatti e dopo un paio di giorni gli è ritornato indietro il negozio. Gli anni a seguire rimangono difficili da affrontare per la madre di Renzo, la quale cerca aiuto dalla sorella Maria nella gestione del bar. Maria è la sposa di Erminio Brollo un ex partigiano della Brigata Piave, molto conosciuto in zona per un’azione di guerra eseguita durante il secondo conflitto.

Antonia Bergamini. Foto di Renzo Mancini

Renzo: “mi ricordo che un giorno si presentò Erminio Brollo a Villa Brtoluzzi, dov’eravamo sfollati, tutto fradicio e infreddolito. Calzava addosso dei vestiti leggeri ed estivi, pur essendo in pieno inverno. Ci raccontò che era finito nel fosso con la bicicletta a seguito della fitta nebbia che gli impediva di vedere il tragitto verso casa e un contadino lo aveva soccorso con i vestiti che teneva. Un racconto credibile tutto sommato. Terminata la guerra mi raccontò che in realtà avevano tentato, assieme al maestro Ernesto Poletto un attentato dinamitardo contro i tedeschi. Nuotando nel fiume Piave, nei pressi di Palazzetto, si erano avvicinati ad una imbarcazione nemica carica di munizioni, con l’intento di posizionare delle cariche esplosive sullo scafo. Scoperti dai tedeschi e sotto le raffiche di mitra sono sfuggiti alla cattura (3).

Trascorsi alcuni anni nella casa dei Bressanin, la famiglia Mancini si trasferisce nella casa di Serafini, il quale gestisce in città un negozio di alimentari. Nella stessa casa e prima di lui ci abitava il dottor Schiavorena. L’abitazione confina con le famiglie Guiotto, della quale viene ricordato il nome di Maria, e Beniamino Feruglio, che poi diviene il sindaco di San Donà di Piave (Partito Comunista Italiano dal 1945 al 1946). La nuova abitazione (ancor oggi esistente) è circondata da un grande recinto con l’orto, un pozzo per la raccolta dell’acqua, un grande ciliegio e degli alberi di cachi. Di tutto ciò rimarrà ben poco dopo la costruzione dell’attuale Via Jesolo.

L’edificio bianco a due piani al centro della foto è l’ultima casa abitata da Renzo Mancini prima di emigrare a Torino con la famiglia nel 1954.

Renzo:“alla fine di Via Rialto Jesolo, che confinava con il mio orto, ricordo che portavo sempre il mio cane Pippo a mangiare l’uva della vigna che era gestita da una coppia giovane di affittuari (che mi sfugge il nome). Pippo era un cane setter regalatomi da un soldato inglese che aveva parcheggiato la jeep vicino a casa mia appena terminata la guerra. Ricordo che un giorno io e il mio amico Gigi Varese abbiamo deciso di tagliare il pioppo secco che confinava con la proprietaria della vigna, una vecchia bisbetica. Era nostra intenzione farne legna da ardere per la stufa. La signora uscì dalla sua casa e cominciò a dire: “Ah sangue del mio sangue” riferita all’albero. Divenne la favola degli arzarini”.

Renzo:“ricordo che appena giù dal ponte stradale c’era la trattoria Al Piave gestita dalla signora … e dai figli gemelli Attilio e Gianni, detti i Tati, miei carissimi amici, mentre in via Rialto Jesolo c’era (ancor oggi presente) la chiesetta della signora Vidussi, che le sere del mese di maggio l’apriva per fare il rosario. Accanto all’edificio sacro c’era un lungo viale alberato (di giuggiole) che terminava nelle case degli Schiavo e dei Trionfini. Da questa stradina si poteva accedere a Corso Silvio Trentin passando sotto una galleria sopra la quale abitavano i Terzi” (4).

I giorni passano sereni come le domeniche nelle quali Renzo organizza delle feste per stare in compagnia con gli amici. Ci si reca dalla zia che abita al piano terra per i rifornimenti. Via di pastine e vino vermouth per ballare e far colpo sulle ragazze, senza alzare troppo il gomito. Nella compagnia ci sono le sorelle Mirella e Tosca Bottacin, le sorelle Marusso e Luisa Marigonda.

Renzo:“anche il giorno della quaresima ci trovavamo a far festa. Una domenica durante la messa in duomo, Monsignor Saretta predicò il cattivo comportamento di alcuni giovinastri, cioè noi, che si divertivano anche durante i periodi di penitenza. Noi eravamo terrorizzati però da Don Silvio che si metteva alle due del pomeriggio sui gradoni della chiesa per vedere se riusciva a prendere qualche ragazzino da condurre al catechismo. Il nostro intento però era quello di andare al cinema Progresso a vedere i film dei cawboy. Per cercare di evitarlo passavamo per Vian, facevamo il giro sotto il muro di Via Giannino Ancillotto, andavamo da Pattan a comprarci il limone con la liquirizia e poi sempre radenti al muro entravamo dalle uscite d’emergenza del cinema, sotto il porticato, dove c’era anche lo stallo delle biciclette. Tante volte però Don Silvio riusciva a prendermi per le orecchie e a condurmi in chiesa”.

Piazza Trevisan. A destra della foto è visibile il Cinema Progresso. Cartolina viaggiata nel 1966. Foto pubblicata da Antonio Mucelli nel Gruppo facebook “Sei di San Donà se…”


Con l’andar del tempo la madre di Renzo comincia a stancarsi del duro lavoro, il che gli provoca uno scompenso cardiaco. Viene ricoverata nell’ospedale di Villa Ancillotto dove riceve le cure dai medici Giorgi da Venezia e Girardi, i quali provano su di lei un nuovo farmaco diuretico Americano che gli salva la vita. Dall’impossibilità di andare avanti con le sue forze nel mantenere il bar si affida sempre più con insistenza alla gestione della sorella Maria. I suoi figli ormai in età adulta cominciano a lavoricchiare qua e là. Sergio tenta di avviare un bar a Jesolo Paese, ma non ha molta fortuna (il turismo del litorale non esiste ancora). Abbagliato dallo zio paterno Guido, che ha trovato lavoro a Torino, prende la decisione di trasferirsi lì anche lui. Il suo nuovo impiego è presso la ditta casearia Galbani. Iniziano così gli anni dell’emigrazione verso le grandi città italiane che influisce anche il resto della famiglia di Renzo Mancini. E’ l’anno 1954 che stabilisce la data effettiva della partenza del nucleo famigliare dalla piccola città veneta di San Donà di Piave verso Torino.

Renzo:“faticavo a trovare occupazione a Torino perchè dovevo fare ancora il militare e allora mia zia Maria mi invitò a tornare a San Donà per aiutarla nella gestione del bar (che rimase operativo fino al 1970), e io ci andai volentieri. Nella cittadina avevo tutti i miei vecchi amici. Orfeo Marcuzzo, Gianni, ecc… Orfeo abitava in via Brusade. Dopo alcuni anni ha sposato Sofia, la figlia del daziere di Meolo. I due coniugi gestivano degli alberghi a Bibione. Proseguii nel fare il militare a Cagliari in Sardegna e quando terminai, mia zia Maria mi propose un nuovo lavoro alla FAP di San Donà come fattorino e bigliettaio. Decisi però di tornare a Torino dove trovai impiego come responsabile di magazzino e spedizioniere presso le più note case editrici. A Torino mi sono sposato con Ester, ho avuto una figlia e ci sono rimasto per ben trent’anni. Oggi abito a Deruta in provincia di Perugia e a Torino ci sono rimasti i miei fratelli con i nipoti”.

GLI POSTS DI RENZO MANCINI

Il gatto Bigio

“Non ci fu permesso di portarlo con noi quando si andò sfollati nel giugno1944.
Così Bigio, il mio gattone, rimase a San Donà e tutti i giorni mio fratello Sergio o mia mamma gli portavano del cibo.
Allora abitavamo nella nostra prima casa di via Rialto Jesolo, che nel terribile bombardamento del 10 ottobre 1944 andò distrutta per opera degli aerei dei LIBERATORI.
Naturalmente del Bigio si persero le tracce.
Finita la guerra trovammo casa sempre nella stessa via e del Bigio rimaneva solo un ricordo, ma un pomeriggio si presentò, magro spelacchiato, con una fame arretrata di mesi, mangiò da scoppiare e poi si addormentò e dormì per due giorni.

Gli amici Sonia e Orfeo

Una piccola grande storia d’amore.
Tutti i giorni alle 6,30 lui saliva a San Donà, lei un quarto d’ ora dopo a Meolo, entrambi destinazione Venezia dove studiavano ragioneria.
.Questo per 5 lunghi anni.
Era inevitabile, o quasi, che nascesse un grande amore. Lui tutte le sere, in bici, si recava da lei, sempre, anche durante le vacanze.
Si diplomarono assieme.
Li festeggiamo con tutti gli amici.
Lui per un periodo fece l’istruttore di scuola guida, poi entrambi trovarono lavoro a Lignano Sabbia d’Oro come responsabili di strutture alberghiere..
Non li vidi più. Io andai a Torino, prima, e a Sansepolcro dopo.
Fu proprio a Sansepolcro che li vidi l’ultima volta.
Passammo una bellissima giornata a ricordare e a rivedere vecchie foto, dove c’era tutta la nostra gioventù.
Lui era molto ammalato e per rincuorarlo gli dissi
” Dai, !a prossima estate verrò a trovarvi al mare.” Lui mi agghiacciò con: “Caro Renzo, la prossima estate io non ci sarò più..”
Mori nel maggio del 2003. Un abbraccio a Sonia e ad Orfeo, Fu vero grande amore.

Renzo Mancini in sella alla sua moto.

Il Re degli arzarini

Nei primi anni cinquanta del secolo ero indubbiamente il re degli arzarini
I miei “sudditi” erano: i due Bruno, Orfeo, i 2 Gianni, Bruna, Lilli, Mirella, Tosca, gli junior Giulietto ed Enrico detto Pampe ed altri.
Un bel giorno arrivò un pretendente al trono, un bel ragazzo di nome Ivan.
Si introdusse nel gruppo, incominciava avere successo specialmente con le suddite.
Bene. Una sera ci sfidammo alla lotta, ci rotolammo sull’erba del prato, però nessuno dei due riusciva ad avere la supremazia sull’altro.
A un certo punto sentimmo un caldo umidiccio giù per la schiena e sulla pancia, guardammo in sù e vedemmo Giulietto, con il suo pistolino fuori, che ci stava annaffiando.
Scoppiamo tutti in una grande risata,
Ivan rimase come sostituto re. Io dopo qualche mese abdicai per trasferirmi a Torino, e gli arzarini lentamente morirono di noia.


La vecchia casa bombardata nel 1944

Ricordo la mia vecchia casa di San Donà, quella distrutta dal bombardamento aereo del 10 ottobre 1944.
Era strutturata su due piani più il pian terreno.
Al pian terreno c’era un grande salone che fungeva anche da ingresso con sul fondo un’ampia finestra riparata da una tenda e contro la tenda il pianoforte. I mobili erano in stile novecento, a sinistra un salotto con dei mobili che non mi piacevano e le pareti color rosso singhiozzo di lumaca, schifoso.
A destra un’ampia cucina con i mobili laccati bianco avorio, poi ” el secer” con il lavello, la cucina economica con il fornello a liquigas e una dispensa.
Al primo piano c’era la camera dei miei genitori, le due camere di noi ragazzi e la cameretta della domestica e sul pianerottolo una stufa in terracotta a e il bagno.
Al secondo piano c’erano le due stanze delle zie: Cesira e Maria, un bagno, la camera del nonno , la stufa e un piccolo solaio.
La camera del nonno aveva una particolarità: dietro al letto c’ era una porticina che dava in una stanzetta la quale a sua volta aveva una finestra che dava sul bagno, mai capita questa stranezza, forse per i “guardoni?”
Bene, in quel periodo mio fratello Sergio voleva studiare da papà e pensò di trasformare quella stanzetta in una piccola chiesetta, con il suo bravo altare.
Poi incominciò a celebrare i matrimoni, uno di questi fu il mio (quattro anni) e la mia amichetta Marisa (cinque anni).
Ci fu anche il pranzo di nozze, pane, burro e marmellata.
Poi cambiò idea; voleva diventate re, fu allora che mio padre lo mandò in collegio militare a Bolzano. Ohibò un re deve avere una formazione militare!!!


Didascalia
(1) La Caserma San Marco (o Tito Acerbo) del Genio Pontieri era stata realizzata nel 1912 e strutturata con due stalle, capaci di ospitare una ventina di animali, tre magazzini e un corpo principale di due piani. Era dotata di una strada (l’attuale Via Eraclea) che la collegava alla golena del fiume Piave e permetteva in questo modo lo spostamento dei soldati verso il luogo delle esercitazioni. Si trovava nell’area dove oggi ci sono i Parchetti della SIP. Al termine della Seconda Guerra Mondiale la Caserma cessò la sua funzione e, viste la difficile situazione econominca e la mancanza di case, nel cortile della struttura vennero allestite e costruite delle baracche in legno ad uso abitativo. Il Comune di San Donà di Piave l’acquistò per demolirla e farne un Parco nel 1970.

La Caserma San Marco o Tito Acerbo (foto tratta dal gruppo facebook “Sei di San Donà se…”)
L’area dove sorgeva la Caserma San Marco (foto tratta dal gruppo facebook “Sei di San Donà se…”)

(2) Dal libro “Un soffio di libertà, La Resistenza nel Basso Piave di Morena Biason, Nuova dimensione Editore”: Nel bombardamento di San Donà di Piave del 10 ottobre 1944 ci furono decine di vittime (n. 45 menzionate nel libro con nomi e cognomi) e centinaia di feriti. Fra gli edifici distrutti risultano: l’ospedale civile, il rifugio San Vincenzo, la centrale telefoni di Stato, il teatro Verdi, il panificio Trivellini e la tipografia S.P.E.S. Rimangono danneggiati il forno Fasan e l’edificio della Pretura. Colpiti anche gli edifici delle scuole elementari del centro, il palazzo municipale, il carcere mandamentale e molti edifici privati (le case distrutte sono 69 mentre quelle lesionate sono 50). Altri bombardamenti aerei si sono verificati il: 29 luglio 1944; 29 agosto 1944; 23 settembre 1944 colpito il ponte della ferrovia sul fiume Piave; 26 settembre 1944; 22 novembre 1944 colpita la frazione di Chiesanuova e Musile di Piave; 17 dicembre 1944 colpita la frazione di Isiata e i paesi di Grassaga, Croce e Musile di Piave; 26 dicembre 1944 colpita la frazione di Calvecchia; 28 dicembre 1944 colpita un’imbarcazione sul fiume Piave e qualche casa a Musile di Piave; 20 gennaio 1945 colpito un camion a Meolo; 23 gennaio 1945 colpita Via Sabbioni; 27 gennaio 1945 distrutto completamente il ponte ferroviario sul fiume Piave e affondata una barca a Caposile; 8 febbraio 1945 colpiti un autocarro vicino a Villa Ancillotto e lo Jutificio a Mussetta; 11 febbraio 1945 distrutte alcune case in Via Rialto Jesolo; 12 febbraio colpito il territorio di Grisolera (l’attuale Eraclea); 17 febbraio viene mancato per poco il ponte ferroviario sul canale Grassaga, vengono colpite le campagne di Fossalta di Piave e Croce e soprattutto le stazioni ferroviarie; 20 febbraio 1945 colpita e interrotta la strada arginale di Passarella; 21 febbraio 1945 viene mitragliato il centro cittadino di San Donà di Piave e interrotto il traffico strdale con Musile; 22 febbraio 1945 viene colpito il cimitero nuovo della città di San Donà di Piave. Dal libro “San Donà di Piave” di Dino Cagnazzi gli sfollati della città sono andati ad abitare provvisioriamente nei centri limitrofi ossia: 78 famiglie a Stretti, 60 a Fossà, 58 a Grassaga, 53 a Passarella, 49 a Chiesanuova, 38 a Cessalto, 29 a Ceggia, 28 a Cà Turcata, 25 a Campodipietra, 24 a Chiarano, 9 a Musile di Piave e 3 a Meolo, Millepertiche, Fossalta Maggiore e Losson.

L’Ospedale Civile Umberto I ricostruito dopo la Prima Guerra Mondiale e innaugurato l’11 dicembre 1921 si trovava dietro la Casa di Ricovero Monumento ai Caduti in guerra 1915-1918 e lungo il vecchio Viale Margherita (attuale Viale della Libertà). Foto tratta dal libro ” San Donà di Piave – Per non dimenticare” di Angelino Battistella e Aldo Milanese, 1998.

(3) L’episodio di Erminio Brollo è descritto nel libro “Un soffio di libertà, La Resistenza nel Basso Piave di Morena Biason, Nuova dimensione Editore”. Cosi si legge: 13 dicembre 1944. Veniva compiuta un’azione dinamitarda “in località Palazzetto per la distruzione di una chiatta di massima importanza, poiché serviva al nemico per traghettare da una sponda all’altra del Piave truppe e materiale bellico”. Il partigiano Erminio Brollo “posata la mina e mentre stava per allontanarsi, accortosi dei tedeschi di guardia venne inseguito e minacciato d’accerchiamento con tutta la squadra. Vista l’impossibilità di scampo e per meglio sottrarsi all’accerchiamento ha dovuto abbandonare il proprio bagaglio e inoltre gli indumenti che indossava per meglio attraversare il fiume a nuoto”. Partecipavano all’azione almeno Antonio Turchetto, Carlo Montagner, Rino Vanzin ed Erminio Brollo… Il nome di battaglia di Erminio Brollo era “Alberto”. Ernesto Poletto partecipò ad un’azione di guerra contro i tedeschi il 25 luglio 1944 nei pressi di Cavallino. E’ stato un maestro di scuola e sindaco di Musile di Piave (nelle elezioni del 17 giugno 1951 con il partito comunista).

(4) La chiesetta privata conosciuta come cappella Vidussi/Rubinato, sita all’incrocio tra Via Aquileia e Corso S.Trentin, è stata costruita nel 1935 sullo stesso terreno di quella precedente, distrutta durante la Grande Guerra. L’attuale struttura, commissionata dalla Ditta Vidussi Guido di San Donà di Piave, che durante gli anni Trenta si occupava di forniture di ricambi e ed accessori per auto, è stata realizzata su progetto del Geom. Attilio Rizzo e dedicata al culto della Vergine Maria (informazioni tratte dal MUB Museo della Bonifica al seguente link: https://www.facebook.com/museodellabonificaMUB/posts/1469106963275948)

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