Storia di un colono Libico

“In questa stanza ogni venerdì diciamo il rosario”. Così Antonio Pivetta si presenta ai miei occhi in un freddo pomeriggio di Marzo 2018 a Cà Memo di Noventa di Piave. In alto, sopra un piedistallo, una grande statua della Madonna mi da il benvenuto. I muri sono tapezzati di foto ricordo di una Libia lontana, ma pur sempre nel cuore di chi l’ha vissuta come lui e la sua famiglia. Accanto ad Antonio sua moglie Pina vigila e poi mi offre il caffè. E’ fin da subito un’emozione forte per me e un benvenuto caloroso. Da lì a poco Antonio inizia a raccontarmi la sua storia ed è come leggere un libro coinvolgente, che ti lascia a bocca aperta e senza parole.

Antonio Pivetta in veste di Vigile d’Argento a Noventa di Piave.


Penultimo di otto fratelli Antonio nasce nei primi anni trenta del novecento a Cà Memo di Noventa di Piave. Casualità o profezia viene battezzato come “Antonio” perchè il prete, due testimoni, il padrino e suo padre portano lo stesso nome. Suo papà possiede una barca e paga degli operai per dragare il fiume Piave (ad ogni carico raccoglie circa dai 19 ai 29 mc di terra o ghiaia), mentre sua madre Maria Bortolotto lavora presso lo Jiutificio di San Donà di Piave. Non mancano i soldi e questo permette loro di costruirsi una casa di proprietà. I problemi economici insorgono invece con la riforma sul lavoro, varata il 21 aprile 1927, in epoca fascista, che portano un aumento dei costi dell’azienda del padre e quindi alla decisione di vendere l’attività e licenziare gli operai. La famiglia chiede pertanto di emigrare in Libia in cerca di fortuna e sbarca nella nuova terra il 2 Novembre 1938 con i famosi “Ventimila”. Dal paese nativo Noventa di Piave partecipano all’evento 30 famiglie su 100 della provincia di Venezia.
Alla famiglia di Antonio viene affidato il podere 111, pozzo 5 bis, nel Villaggio Francesco Crispi.

Come si presenta oggi il podere 111 pozzo 5 bis. Immagine estrapolata da Google Earth.

Interessante come Antonio nella sua biografia descrive l’arrivo presso il villaggio: “siamo entrati con una valigetta ed abbiamo trovato tutto pronto… cibo per un mese intero e anche il latte “Nestlè” per i bambini..! La nuova abitazione era composta da una cucina con forno a legna, c’erano perfino i fiammiferi, lanterna tedesca Primus per l’illuminazione, un tinello, tre stanze da letto ed i servizi igienici, pavimento di piastrelle e muri spessi 50 cm di roccia; sul retro, separati dalla casa, si trovavano il magazzino, la cisterna per l’acqua piovana, il pozzo, la stalla con un mulo e un cavallo da lavoro. Nel villaggio c’erano 370 poderi con 12 pozzi (senza i pozzi bis) e ciascun podere aveva una superficie di 10 ha (nelle zone meno fertili potevano, però, arrivare al doppio e al triplo); vi erano già messe a dimora 300 piante di ulivo in filari distanti tra loro 15 m. Il sistema di irrigazione, ovviamente, era stato studiato ed attuato con molta attenzione e permetteva di coltivare gran varietà di ortaggi e frutta; pomodori, piselli, fave, meloni, ottimi e abbondanti cocomeri. Sin dal nostro arrivo si aumentò subito la messa a dimora di pini marittimi, eucalipti e palme da dattero per ombreggiare le strade colpite dal sole bruciante, ma soprattutto come frangivento contro la sabbia trasportata dal Ghiblì. nel mese più caldo dell’anno, settembre. Il Ghiblì è un vento di scirocco, caldo, secco del deserto, che creava seri problemi a tutta la popolazione locale e non. Infatti, la sabbia, finissima, impalpabile, rendeva difficile respirare e vedere, si posava ovunque, addirittura penetrava nelle pentole durante la cottura dei cibi nonostante i coperchi appesantiti da pietre poste sopra. L’inizio non fu facile per noi poiché il duro lavoro della terra e la cura assidua delle giovani piante richiedevano lo sforzo incessante e attento di tutta la famiglia, ma la capacità di organizzare e ottimizzare il lavoro dimostrata da papà, diede i suoi frutti”.

Veduta del Villaggio Crispi dal Pozzo n. 9


Come tutti i bambini della colonia libica (circa diecimila), Antonio nel 1940, assieme alla sorella più grande Anna, vengono inviati in Italia per trascorrere le vacanze, ma lo scoppio della guerra provoca il mancato ritorno a casa, che avviene ben 7 anni più tardi. Entrambi trascorrono una vita separata, Antonio presso la colonia di Igea Marina (Ravenna) e Anna in una pineta di Ravenna. Riescono a vedersi una sola volta in tre anni. Per Antonio la vita in colonia è molto bella, “in fin dei conti si stà bene e non manca nulla”. E’ un giovane balilla che tutte le mattine si sveglia con la tromba come un soldatino, si lava e si veste velocemente e poi va a far colazione con pane e latte nella grande sala da pranzo, giù al piano terra. Al primo piano invece ci sono le camerate dove tutti i bambini e ragazzi dormono. Sono stanze divise in base all’età. Lui è assieme ad altri sessanta bambini, disposti su file da 15 letti dove al centro del corridoio principale sono posizionate delle stufe alimentate a carbone per superare il freddo invernale. Non mancano i bambini che piangono per la mancanza della loro lontana mamma o quelli che di notte fanno la pipì a letto. Di sicuro non c’è qualcuno che li coccola come i genitori, ma semplicemente una accompagnatrice, che li segue tutti allo stesso modo sia di giorno che durante la notte. Le inservienti che arrivano al mattino sono severe, si arrabbiano e sgridano i bambini quando di notte non trattengono i loro bisogni. Per questo motivo Antonio, piccolo anche lui, ma più corraggioso e altruista, decide di svegliarsi tutti i giorni a mezzanotte per portare i bambini al bagno. Strordinaria persona, umile e generosa. La colazione del mattino termina nel cortile della colonia con l’alzabandiera, squilli di tromba e tamburi. La giornata prosegue con la scuola dedicata alle materie fondamentali, alla ginnastica e alla cultura fascista, dove Antonio impara a maneggiare anche un finto fucile (il moschetto balilla). Si dedica allo svago con bagni al mare e gite in montagna durante l’estate. E’ fiero e orgoglioso di partecipare alle marce per le strade di Igea cantando le canzoni imparate in colonia: “Balilla” e “Avanguardisti”. I mesi passano, il ritorno a casa si prolunga, ma questo non impedisce ad Antonio e agli altri bambini di partecipare anche alle feste di Natale. Così gli abitanti del luogo, compassionevoli, aprono le porte delle loro case e invitano questi giovincelli a trascorrere animatamente la festa. Momenti belli, che Antonio ricorderà per sempre e che porterà nel suo cuore.

Nella foto è visibile un esempio di uniforme, in questo caso dei Figli della Lupa. Si caratterizzano da: fez in lana nera con fregio in metallo dorato raffigurante la Lupa Capitolina che allatta Romolo e Remo; camicia in cotone nero con mostrine in metallo dorato sui risvolti del colletto, raffiguranti una testa di lupa; fascia alla vita in stoffa bianca, completa di due bretelle incrociate sempre in stoffa bianca recanti all’incrocio una “M” stilizzata in bachelite o lamierino nero; pantaloni corti in lana grigioverde; calzettoni in lana grigioverde con due righe nere sui risvolti e scarpe in vuoio nero. Nell’ONB (Opera Nazionale Balilla) facevano parte i giovani dai 6 ai 18 anni, divisi in: Figli della Lupa (dai 6 ai 8 anni), Balilla (dai 8 ai 14 anni) e Avanguardisti (dai 14 ai 18 anni).

Diversa è la situazione che si presenta nel 1943 quando nelle colonie comincia a mancare il cibo e tutti sono costretti a rovistare nelle immondizie alla ricerca di qualche buccia di patata da cucinare sulla stufa, piuttosto di qualche torsolo di cavolfiore o verza crudi. La situazione si sblocca con l’affidamento dei ragazzi della colonia ai loro parenti italiani presenti nella penisola e Antonio finisce nella casa degli zii Maria e Pietro a Cà Memo. La zia Maria è la sorella del padre di Antonio la quale dopo la morte del primo marito in guerra (Prima Guerra Mondiale) e della prima figlia di febbre spagnola, sposa in seconde nozze Pietro e mette al mondo Dario. Antonio si adatta con facilità alla nuova vita andando a scuola a Noventa di Piave e nel tempo perso a pescare nel fiume Piave o a cacciare con le reti i passeri, per migliorare la povera dieta della famiglia.“Al mattino colazione con latte e polenta, a pranzo fagioli e polenta, a cena radicchio e fagioli e polenta”. Lo zio Pietro ne va orgoglioso. Entrambi pescano anguille e “bisati” che poi finiscono al mercato al miglior prezzo. Curiosa la casa in cui vive, più povera di quella in Libia, ma comunque servizievole. “Dormivo in un letto nella stessa stanza degli zii; mi lavavo nel catino posto appena fuori della porta sostenuto da un trepiede, un vecchio specchio era appeso al muro; non c’era il bagno per cui ogniuno aveva un solo vaso da notte coperto, posto nella camera al piano di sopra; di riscaldamento neppure a parlarne”. Antonio è diventato un bambino autonomo, non ha paura, è un’esploratore, ma anche un buon nuotatore. Il Piave è la sua palestra, anche se lo zio Pietro gli vieta di andarci, perchè il fiume è imprevedibile, le sue correnti trascinano chiunque sott’acqua con facilità. Lui non si arrende e ci va di nascosto. Un giorno gli capita di trasportare sulla barca, presa di nascosto dallo zio Luigi, un paio di ragazze che volevano raccogliere delle more lungo la sponda sinistra del fiume, ma una di esse, allegra e spensierata, perde l’equlibrio e cade in acqua rischiando di annegare. In un batter d’occhio Antonio si precipita a raccoglierla. Sono attimi di trepidazione che finiscono nel migliore dei modi. Maria si chiama la ragazza e sarà la stessa che molti anni dopo, nel 1963 farà da assistente a un dottore che Antonio incontrerà per i suoi dolori di schiena. Dopo l’8 settembre 1943 cinque dei suoi cugini ritornano a casa dalla guerra, ma con il rastrellamento tedesco, in collaborazione con la RSI, stanziata presso la Caserma San Marco di San Donà di Piave, due di essi vengono spediti come prigionieri in Germania. La tanto travagliata situazione famigliare porta un’ondata di positività quando per Antonio arriva il momento di riabracciare sua sorella Anna che viene affidata allo zio Luigi Rosiglioni sposato con Annamaria (sorella della mamma). La nuova casa lungo il fiume Piave, solitamente un luogo sicuro dove poter vivere con tranquillità, diventa uno spazio invivibile, in quando soggetto a continui bombardamenti da parte delgli arei alleati, intenti a colpire i punti strategici, quali i ponti sul fiume e i trinceramenti tedeschi in costruzione. Questi per lo più realizzati sulla sponda sinistra del Piave per mezzo dei civili. Non basta il terrore giornaliero delle mitragliatrici aree, si aggiunge anche “Pippo” che di notte scruta il buio per colpire le luci accese delle case. “Due bombe avevano centrato il bel vigneto a soli 20 metri dalle abitazioni e si erano formate due buche che avrebbero potuto contenere una casa… gli zii Luigi e Pietro decisero di scavare nei pressi del vigneto, dietro casa, un grande fossato ricoperto con grossi tronchi e frasche tanto da ricavare un rifugio sicuro e vicino dove potersi riparare quando la sirena annunciava l’arrivo degli aerei”. Qualche tempo dopo si trasferiranno a vivere in un primo momento da un parente vicino al Municipio” e poi al “Treno” (una lunga fila di case a Cà Memo” vicino all’Oratorio al Redentore). L’avvicinarsi della fine del conflitto, invece, vede i dominatori fuggire da Noventa di Piave trainando i carri armati con i cavalli per risparmiare il carburante e gli Americani posizionarsi sulla sponda destra del fiume Piave a Fossalta. Intenti ad oltrepassare il fiume, sorprendono i civili, regalando pacchetti di sigarette e pezzi di cioccolata, nonché mangiando patatine fritte. Cosa alquanto strana per Antonio abituato a vivere nella povertà. La cessazione del conflitto porta certamente un’ondata di gioia per la liberazione dal dominio tedesco, ma anche il triste momento per Antonio e la sorella di lasciare gli zii e dover tornare con rammarico dai genitori in Libia. Zii tanto amati che per molti anni hanno fatto da genitori per entrambi. Travagliato il ritorno a casa che dura ben 2 anni. Partono da San Donà di Piave con un treno merci diretto a Mestre dove alloggiano su delle tende per 8 giorni. Ripartono con il treno per Bologna nella quale dimorano sempre su delle tende, allestite dagli americani, per 10 giorni. Non è un bel panorama quello che si presenta agli occhi di Antonio, poichè la stazione della città è completamente distrutta dai bombardamenti. Tutto sommato non si stà poi così tanto male, in quanto gli Alleati sono intenti al suo provigionamento. Il tragitto prosegue su camion sempre americani, lungo gli appennini (l’autostrada purtroppo non esiste ancora) con meta a Firenze, in una scuola di preti che affianca il fiume Arno ed è vicina alla stazione ferroviaria. Le notti sono piuttosto scomode perchè Antonio è costretto a dormire per terra sul pavimento con una coperta. Tutto il viaggio continuerà poi in questo modo. Riesce per 8 giorni a mangiare grazie ai preti. Da Firenze finisce ad Orte per mezzo di un treno pieno di profughi, accompagnati da soldati italiani. All’arrivo viene prelevato, portato con dei camion americani in una pineta, separato dalle femmine e visitato dentro a delle grandi tende militari. I dottori lo disinfettano con una polvere bianca e dopo una puntura alla mamella finisce svenuto in una barella per poi passare la notte con la febbre a 40°C. Il tour termina a Cinecittà (Roma) dove Antonio alloggia prima al padiglione n. 5 (che descrive molto grande, con sei portoni d’ingresso e con il pavimento in legno) e poi al n. 13/14. In questo luogo permane per molto tempo lavoricchiando qua e là. Prosegue quindi il tragitto con il treno per Napoli per poi finire a Tripoli dormendo per terra nella stiva di una nave. “Con Anna ed altri salimmo sul camion che ci portava al Villaggio Crispi, un viaggio di ben 220 Km; verso sera giungemmo nella piazza del villaggio. Era piena di gente festosa. Anna scorse subito nostro fratello Angelo; gli corse incontro e l’abbracciò, lui guardandosi intorno chiese di me: ero rimasto un po’ indietro col mio sacchetto a tracolla, non mi aveva riconosciuto. Durante il percorso ci disse che il giornale locale aveva pubblicato l’elenco dei giovani che ritornavano e c’era solo il nome di Anna, quindi mamma e papà non mi aspettavano; Angelo suggerì a mia sorella di entrare in casa per prima e di avvisarli della mia presenza; infatti quando entrai nella grande cucina, se ne stavano seduti al tavolo e piangevano… Durante la cena guardavo i miei genitori e cercavo nella memoria un ricordo dei loro volti, ma non lo trovavo; era passato tanto tempo ed ero piccolo quando li avevo lasciati. Incominciò per me una nuova vita”.

La chiesa dedicata al Cristo Re nel Villaggio Crispi.

In Libia Antonio impara presto il duro mestiere del contadino aiutando il padre e il fratello Giuseppe, l’unico rimasto nel podere assieme alla famiglia di origine. Gli altri fratelli sono andati a vivere altrove. Angelo coniugato nel podere accanto, Luigi anche lui sposato, finisce a lavorare come cuoco presso la caserma inglese a Misurata e Anna viene assunta negli uffici del Governo a Tripoli. Il nuovo ambiente è pieno di insidie, fa molto caldo e ha un deserto nel quale è facile imbattersi nei miraggi alla ricerca di legna da ardere, però ha anche dei lati positivi: le notti sono buie, si vedono molto bene le stelle e la luna piena è meravigliosa. Per Antonio qualcosa di spettacolare che ricorderà per tutta la vita. L’amicizia con gli arabi gli permetterà di conoscere le loro feste e l’accoglienza che hanno con l’ospite. “Quelle feste (sposalizio) duravano anche una settimana.. Il pranzo durava ore con portate di agnello in umido, couscous, uova sode, frutta, dolci, thè aromatizzato con la menta (shai bil ‘nana’). Corse di cavalli e spari beneauguranti. L’arrivo della sposa, nascosta in una portantina chiusa da drappi di seta e portata da un camello bardato a festa, segnava il culmine della festa”. La nuova vita pertanto comincia a passare in fretta. Il duro lavoro viene soggiogato dal tempo libero dedicato al calcio (introdotto nell villaggio in un primo momento dal parroco Agostino e proseguito da don Adriano Gerli da Milano) e alla conoscenza di nuovi amici di altri villaggi (Garibaldi, Breviglieri, Homs), mentre il “Circolo Ricreativo Italiano” diviene un luogo in cui si propongono momenti di festa e di svago per tutti gli abitanti del villaggio. L’evolversi della politica del dopoguerra, con la caduta del fascismo, istituisce in Libia la Monarchia guidata dal Re Idris I° il quale conserva ai coloni italiani il benestare. Sono anni di evoluzione tecnologica, nei quali i contadini abbandonano la fatica dell’aratro trainato dai cavalli, e si lasciano trascinare dalla comodità del trattore. Non tutti riescono però a comprarlo, come nel caso della famiglia di Antonio, e affidano la lavorazione della terra a “contoterzisti”. La prosperità guadagnata e il nuovo modo di concepire il lavoro da la possibilità di sfruttare maggiormente il terreno, sopratutto quello del deserto, affittato dal Governo libico. Questo permette ad Antonio e alla sua famiglia di aumentare la produttività della terra, sopratutto con l’olio extravergine prodotto dalla spremitura delle olive.

Colono al lavoro

L’agricoltura non è l’unico sostentamento della familgia e per questo motivo Antonio decide di farsi assumere come usciere presso l’Ente Governativo della Libia al Villaggio Crispi. Gli anni passano, conosce Pina la sua futura moglie e va a vivere con lei non lontano dal centro del paese presso il pozzo numero 2. La fatica di mantenere due lavori gli fa prendere la decisione di affittare la sua piantagione, di circa 15 ha, a due mezzadri, i quali allevano pecore e producono frutta, ottimi meloni e olio. Un bel giorno i suoi amici lo vengono a chiamare perchè Pina ha messo al mondo una bambina e l’Ente Governativo gli presta una moto per raggiungerla, ma al suo cospetto si presenta invece un bambino che prenderà il nome di Claudio. Non sarà l’unico figlio in quanto in Italia ne nasceranno altri due.

Antonio Pivetta e la moglie Pina con la moto al Villaggio Crispi

Col passare del tempo la politica libica comincia purtroppo ad affievolirsi, lasciando sempre più spazio ai libici locali piuttosto che ai coloni italiani. Tutto questo benessere economico creato con molto sudore e fatica diventa un incubo per i coloni quando al potere subentra nel 1969 Mu’ammar Gheddafi. Un colpo di Stato militare fa cadere in un attimo la Monarchia. Ai coloni italiani viene imposto di vendere i loro poderi solo ai libici e di rimpatriare in Italia. L’Ente per la Colonizzazione della Libia chiude gli uffici e licenzia tutti gli impiegati. Antonio rammaricato, vende quindi la sua amata terra ai suoi fittavoli e rimpatria anche lui in Italia. I suoi genitori lo seguiranno alcuni anni più tardi. Il rientro purtroppo si presenta difficile, non solo per la mancanza di una casa, ma sopratutto per il clima piuttosto freddo del Basso Piave. Con molta fatica Antonio riesce ad alloggiare in affitto presso un’abitazione e a trovarsi finalmente un nuovo lavoro come autotrasportatore. Sarà il suo impegno per tutta la vita. Riuscirà a costruirsi una nuova casa a Cà Memo e ad aiutare la famiglia della moglie, non che le altre famiglie in difficoltà come lui.


Cenni storici:

La colonizzazione della Libia

Al fine di ottenere prestigio internazionale, dopo che le altre potenze avevano colonizzato parte dell’Africa, l’Italia decide di rivolgere i suoi interessi economici e politici verso la Libia, una delle uniche regioni rimaste libere. Per non occuparla fin da subito con un’azione militare, inizia a creare nel terriorio libico una fitta rete di interessi creando il Banco di Roma, un Istituto finanziario legato al Vaticano e ad ambienti cattolici. Nel 1907 viene aperta la prima filiale a Tripoli che ha lo scopo di investire sul territorio ottenendo rispetto e credibilità sulla popolazione con azioni dirette quali: la costruzione di un moderno mulino, una fabbrica di ghiaccio, la fornitura di oleifici (nel caso di Homs e Msellata), la lavorazione di piume e spugne ecc. L’istituto acquista numerose proprietà fondiarie e da vita allo scambio commerciale tra le coste libiche e quelle italiane. Viene avviato un programma di propaganda giornalistica all’interno del territorio italiano dove viene publicizzata la Libia come il mito di una terra promessa. Anche i poeti come Carducci, D’Annunzio e Pascoli ne parlano. L’azione militare arriva quindi nel 1911 e solo nel 1932 cessano le violente repressioni contro i ribelli Senussi guidati da Omar al Muktar (rimangono però attivi i campi di concentramento voluti dal generale Graziani). Dal punto di vista fascista la nuova terra deve essere civilizzata e riscattata in quanto appartente un tempo all’impero romano. Vengono riportate alla luce e restaurati gli antichi edifici e a Tripoli viene fondato il primo ufficio archeologico coloniale e il primo museo delle antichità. Architettonicamente i resti romani diventano oggetto di eventi urbanistici e scenografie cittadine. Per completare l’opera di colonizzazione della Libia viene publicizzata in Italia l’emigrazione contadina come soluzione ai problemi occupazionali (aggravata nella seconda metà degli anni ’20 in seguito alla crisi del settore agricolo dovuto al blocco sull’imigrazione emanato nel 1929 dagli Stati Uniti). Si presenta quindi la necessità di ottenere pacificamente dei terreni libici da poter sfruttare con l’agricoltura. Con il governo di Giuseppe Volpi (1921-1925) vengono emanate una serie di leggi per trasformare i territori liberi libici in proprietà demaniali, sfruttando una normativa islamica con cui “la terra è di Dio e delle autorità che lo rappresenta sulla terra, ovvero il governo”. Per la stessa norma, un terreno dato in concessione e rimasto incolto per almeno tre anni deve tornare al governo, passando successivamente di proprietà a chi lo vivificherà e lo renderà produttivo. In Tripolitania viene aperta la Cassa di Risparmio seguita dalla Cassa di Risparmio della Cirenaica a Bengasi con lo scopo di favorire un’assistenza governativa, prestando denaro a scopo agricolo. Senza l’utilizzo di capitali Statali si attraggono investitori privati proponendo terre a basso costo ed esenzioni fiscali. I nuovi proprietari terrieri sfruttano quindi la manodopera a basso costo locale per coltivare la loro terra e non permettono di farla lavorare ai contadini italiani. Per favorire il posesso di terreni da parte degli italiani vengono emanate nuove leggi con il Governo di Emilio de Bono (1925-1929) e sucessivamente viene creato una Società di Colonizzazione (Ente di Colonizzazione della Cireaica) con lo scopo di aiutare il colono e di intermediare con il Governo. Il Governo fornisce terreni liberi da tasse e si assume la realizzazione delle opere di carattere generale (strade, acquedotti, pozzi, costruzione di centri rurali), mentre l’Ente ha il compito di bonificare il terreno, dividere i lotti, costruire le abitazioni rurali e fornire assistenza e consulenza alle famiglie dei contadini. Gli anticipi versati alle famiglie, il valore dei lotti, il costo della casa colonica, il valore delle scorte, l’importo dei lavori eseguiti dall’Ente concorrono a costruire il prezzo del podere, che la famiglia contadina dovrà riscattare nei modi definiti dai contratti stipulati tra famiglia e Ente. In Tripolitania dalla fine del 1935 opera un altra organizzazione, l’Istituto Nazionale Fascista di Prevenzione Sociale (INFPS) che ha lo stesso scopo dell’ECC. Con il Governo di Italo Balbo (1934-1935) inizia la fase della colonizzazione demografica intensiva e di massa. Viene creata la “Quarta Sponda” (l’Italia viene vista metaforicamente con quattro lati dove il quarto è rappresentato dalla Libia) e uniti i territori della Tripolitania con la Cirenaica. Lungo tutta la fascia costiera della Libia viene costruita una strada chiamata Balbia (Litoranea) che collega la Tunisia all’Egitto. Con una legge del 1938 si stabilisce che la colonizzazione demografica della Libia avvenga solo ed esclusivamente con finanziamenti statali. L’ECC viene trasformato in Ente di Colonizzazione della Libia (ECL) e con l’INFPS diventano enti ausiliari della Pubblica Amministrazione, perdendo il loro iniziale ruolo autonomo. Alle famiglie contadine italiane viene dato un sussidio del 30% a fondo perduto (che comprende il costo dell’abitazione, del lotto, ed eventuali debiti contratti nel tempo) mentre il resto viene ammortizzato dai coloni in un periodo variabile (dai 30 ai 40 anni) con tassi d’interesse minimi. Per l’emigrazione di massa si prevede di traferire in Libia ben 100000 coloni italiani suddivisi per 5 anni in gruppi di 20000 persone. Per la prima ondata vengono realizzati in sei mesi tutte le infrastrutture necessarie ad accogliere i contadini e 1800 poderi, mobilitando 10000 operai e 23000 libici. In Italia invece si provvede a scegliere le famiglie che devono sottostare a determinati criteri: famiglie numerose, contadini temprati in grado di saper leggere e scrivere ed essere iscritti al partito fascista. Le aeree libiche individuate per la realizzazione dei villaggi sono: in Tripolitania la zona del Gefara centro occidentale (BIANCHI, GIORDANI, OLIVETI), sull’altopiano di Tarhuma (BREVIGLIERI), nella Tripolitania Orientale a sud di Misurata (CRISPI, GIODA) e in Cirenaica sull’altopiano del Gebel (BARACCA, OBERDAN, D’ANNUNZIO, BATTISTI, MADDALENA). Il trasferimento delle 1800 famiglie rurali viene organizzato da Balbo come un colossale spettacolo nel quale partecipano giornalisti stranieri e tutti i politici. La partenza dei coloni viene fissata il 29 ottobre 1938 con nove piroscafi da Genova e sei dalle regioni meridionali, mentre l’arrivo a Tripoli del 2 novembre viene accolto con enormi festeggiameti. Diversa e a basso tono si presenta invece la seconda ondata di coloni nell’ottobre 1939 dove le famiglie partono dai porti di Venezia, Napoli e Palermo per approdare il 2 novembre a Ras Hilal (tra Cirene e Derna) e continuare via mare verso Tripoli e Bengasi. Le famiglie in questo caso non sono più prossime ai 20000 individui, ma a 1465 famiglie con 10907 persone. In questa occasione sorgono dei nuovi comprensori in Tripolitania (MICCA, TAZZOLI, CORRADINI, GARIBALDI) e in Cireaica (FILZI, SAURO, MAMELI). I contributi statali a fondo perduto aumentano al 33% in quanto vengono colonizzati dei terreni meno produttivi e geograficamente più accidentati. Si avviano anche la costruzione di nuovi villaggi agricoli e pastorali dedicati ai mussulmani in Cirenaica (ALBA, FIORITA, NUOVA, VITTORIOSA, VERDE, RISORTA) e in Tripolitania (FIORENTE, DELIZIOSA). La terza ondata di coloni che dovevano stanziare presso il futuro BORGO TORELLI non avverrà mai.

Sullo sfondo della foto è visibile la chiesa del Villaggio Crispi

Il Villaggio Crispi (dal 1955 Tammina)

Il centro Crispi viene realizzato all’interno del terriorio a sud di Misurata, verso il deserto della Sirte, su progetto degli architetti Giovanni Pellegrini e Umberto Di Segni. Vengono disegnate delle aree aperte disposte su assi con direzioni differenti in modo tale da far sembrare il villaggio un luogo nato naturalmente dal processo di antropizzazione. Il centro politico viene caratterizzato dalla piazza principale dove si affacciano la chiesa e la casa del fascio, mentre quello commerciale e costituito di una piazza comunicante dotata di edifici con portici ad arco. Non manca la strada di servizio, che da accesso alla chiesa, delimitata da costruzioni sul lato sinistro.

Area indicativa occupata dal Villaggio Crispi. Per approfondire la collocazione del comprensorio consiglio di visionare il collegamento di Google Maps: https://goo.gl/maps/1rWS2whQAuPCxqud8
La numerazione dei poderi del Villaggio Crispi. Immagine concessa da Giovanna Mirabella (gruppo facebook “Siamo della Libia” https://www.facebook.com/groups/113490988769589/)
La numerazione dei pozzi del Villaggio Crispi. Pozzo 1 case coloniche n. 32; pozzo 2 case coloniche n. 30; pozzo 3 case coloniche n. 34; pozzo 5 case coloniche n. 30 (dentro questa lotizzazione si trova anche il pozzo 5 bis); pozzo 6 case coloniche n. 30; pozzo 7 case coloniche n. 20; pozzo 8 case coloniche n. 20; pozzo 9 case coloniche n. 30; pozzo 10 case coloniche n. 33; pozzo 11 case coloniche n. 30; pozzo 16 case coloniche… (i pozzi n. 12, 13, 14 e 15 appartenevano al villaggio Gioda). Nel comprensorio del Villaggio Crispi (9140 ha) le piogge erano scarsissime e questo portò allo sfruttamento dele falde acquifere sotterranee ad una profondità di 400 m. Vennero realizzati dei pozzi artesiani a distanza di 2-3 Km l’uno dall’altro ed attorno a essi costruirono le case coloniche. L’acqua artesiana aveva un’elevato tasso di salinità ed era mista a petrolio. Per renderla dolce venne avviato un ciclo di coltivazioni che con la maturazione avrebbe lavato il terreno. Si misero a dimora piante come l’olivo e la palma per resistere alla salinità del terreno e colture erbacee annuali come: cereali, legumi, cotone e arachide. L’acqua dei pozzi in alcuni casi veniva versata in grandi vasche riempite durante la notte per poi servire all’irrigazione durante il giorno. Immagine concessa da Giovanna Mirabella (gruppo facebook “Siamo della Libia”)

Il perido dell’occupazione tedesca a Noventa di Piave

“L’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) fu accolto con enorme gioia stimandosi che il peggio fosse passato, invece quella data segnò l’inizio del periodo più tormentato: l’occupazione tedesca… Noventa si trovò in una situazione diversa da quella del territorio contermine per la presenza di un forte contingente tedesco, dovuto all’utilizzazione del porto fluviale per il trasporto del cemento necessario alla costruzione di fortificazioni ed in particolar modo di quelle costiere sia per il trasferimento a villa Zuliani del centralino delle linee telefoniche internazionali ed in particolare di quelle per Berlino.Questo forte acquartieramento, per cui persino il muicipio dovette essere sgomberato (gli uffici comunali trovarono sistemazione nella caserma dei carabinieri), condizionò tutta la vita del paese in quel periodo, specie dopo il sabotaggio alla linea telefonica per Berlino, avvenuta il 16 luglio 1944, per cui il Comando germanico adottò una misura precauzionale istituendo un servizio di sorveglianza con due uomini ogni 200 metri. Inoltre le necessità dello scalo portuale resero rigidissime le norme sull’inquadramento della Todt (l’organismo militare che dirigeva leopere difensive) di tutti gli uomini validi esistenti in paese. Reclutamento che assunse un carattere così massiccio da far revocare il 29 settembre 1944 ogni esonero tanto per gli uomini che per le donne. Ciò significò l’impossibilità di attuare operazioni di guerriglia antinazista e diede alla resistenza un carattere atipico. Infatti essa si specializzò nel compito di fornire dettagliate informazioni ai Comandi alleati sulla posizione delle fortificazioni… La cronaca del periodo deve rilevare che Noventa non fu immune nè da bombardamenti aerei nè dallo sganciamento di bombe a farfalla nelle campagne, che resero pericoloso il lavoro nei campi… La resistenza del Basso Piave svolse un intenso lavoro soterraneo andando dall’organizzazione dei servizi informativi di sabotaggio, dall’organizzazione dei rifornimenti ai nuclei partigiani combattenti sulle Prealpi all’assistenza ai ricercatori politici ed all’occultamento degli avviatori alleati abbattuti. Dopo la liberazione si era provveduto a dare al paese una nuova amministrazione comunale a carattere democratico: il C.L,N. del Basso Piave, basandosi su indicazioni che con tempestività e preveggenza monsignor Rossetto aveva fatto pervenire, designò a sindaco provvisorio del paese il locale comandante partigiano Gino Piva” (per questa occasione cito un passo della biografia di Antonio Pivetta: “Venne la primavera. L’amico di zio che ci aveva ospitati al “treno” venne a trovarci per parlare con Anna che cercava da tempo un lavoro: le disse che faceva parte del partito della Democrazia Cristiana che era stato eletto sindaco. Una brava persona, ma analfabeta; le chiese, poichè essa aveva il diploma di dattilografa ed era una ragazza intelligente, affidabile, con notevole senso pratico, se avesse voluto dargli una mano. Anna fu felicissima di accettare, anche se lo stipendio non era un gran che; per gli zii era n aiuto benedetto. In poche settimane mia sorella si organizzò col nuovo lavoro e la vedemmo tornare a casa dal Comune, contenta e serena, finalmente!”

Approfondimenti:

Per dare un’idea del colossale approdo dei ventimila coloni (nel quale vi erano presenti Antonio Pivetta e la sua famiglia) il 2 Novembre 1938 a Tripoli, consiglio la visione di due video dell’ Istituto Luce Cinecittà.

  1. L’arrivo dei 20.000 “rurali” italiani in Africa https://youtu.be/ALPnph9JHRA
  2. La sosta, in accampamento, dei 20.000 coloni fra Tripoli e i nuovi centri “rurali” di “Misuratina” https://youtu.be/i0JvflXPRZ0

Interessanti anche due video di Rai-Edu dedicati alla storia del colonialismo in Libia da parte degli italiani:

  1. Storia degli Italiani in Libia (parte 1/2) https://youtu.be/ynR8G7QtX8k
  2. Storia degli Italiani in Libia (parte 2/2) https://youtu.be/ywG7FLauWaY

Bibliografia:

I CENTRI RURALI LIBICI, L’architettura dei centri rurali di fondazione costruiti in Libia colonia italiana durante il fascismo (1934-1940) a cura di Vittoria Capresi, anno 2007. https://www.academia.edu/35329589/I_CENTRI_RURALI_LIBICI_Larchitettura_dei_centri_rurali_di_fondazione_costruiti_in_Libia_colonia_italiana_durante_il_fascismo_1934_1940

Una terra di memorie NOVENTA DI PIAVE di Dino Cagnazzi, Giampietro Nardo e Luigi Bonetto a cura dell’Amministrazione Comunale, anno 1980, copia n. 891.

Ringraziamenti:

Antonio Pivetta e la nipote Ester

Giovanna Mirabella (Ex colona al Villaggio Crispi)

11 thoughts on “Storia di un colono Libico

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  1. grazie…per la prima volta leggo una esauriente descrizione delle vicende libiche….Io sono un nato a Tripoli nel 1937…andato via nell’aprile del 1940…con mia mamma e mia sorella…”per un vacanza in Italia….ma che ti porti….diceva mio padre a mia madre che voleva portare con se almeno la sua pelliccia..fra qualche mese ritornate nella nostra casa di Tripoli” ….Lui rimase a Tripoli…Ufficiale militarizzato…Nel 1943 fu fatto prigioniero…e rimase in America fino agli inizi del 1946…michele.curcuruto@libero.it

  2. Bellissima e commovente storia in parte vissuta anche dal sottoscritto Napoli a Misurata nel 48 e vissuto al villaggio Crispi sino alla cacciata di Gheddafi.

    1. Grazie. Mi fa molto piacere il suo commento. Da parte mia non ci sono libri. Nell’articolo però ho allegato il link di un libro dal quale ho tratto i riferimenti storici, architettonici e urbanistici. Per quanto riguarda il Basso Piave c’è un libro molto interessante curato da Maria Teresa Ghiotto e Maria Trivellato dal nome Frammenti di una storia coloniale, dal quale può fare riferimento.

  3. SONO UN VECCHIO TRIPOLINO, IO ABITAVO AL VILLAGGIO GIULIO GIORDANI ( OGGI AN – NASIRYIAK ) HO TROVATO PER CASO IL SUO RACCONTO SU INTERNET. SE LE FA PIACERE, IO HO QUASI TUTTI I NOMINATIVI DEL VILLAGGIO CRISPI, ED EFFETTIVAMENTE AL PODERE 111 MI RISULTA U N PIVETTI. AL 112 MASCIOLI EUGENIO, AL 113 ORLANDO, AL 114 PROVENZANO, LA PIANTINA DEL COMPRENSORIO DI CRISPI, L’HO RICOPIATA TUTTA E CHIUNQUE ME NE FA RICHIESTA, SONO FELICE DI SPEDIRGLIELA. SE LE FA’ PIACERE CONTATTARMI, LA MIA EMAIL E’ LA SEGUENTE giovannibedoni@libero.it un grande saluto da un vecchio tripolino.

  4. Mi sono commosso nel leggere questa parte di vita vissuta da Antonio lontano da casa. Un grazie di cuore ad Antonio e a Lei.
    Ci avete fatto ritornare al passato.

  5. Grazie mille quanti ricordi ci ai fatto rivivere ciao e di nuovo grazie se c’è il libro faccelo sapere io sono Elena Zisa pozzo 1 casa 318

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