La città di Heraclia

Tanti, tanti anni fa, prima dell’avvenuta dei barbari, in prossimità del centro della località di Cittanova di San Donà di Piave e nel territorio del Comune di Eraclea, sorgeva un’isola circondata da una laguna simile a quella dell’attuale Venezia, che si chiamava Melidissa. E’ probabilmente, secondo Teodegisillo Plateo, che questa distesa d’acqua servisse da porto per i traffici marittimi della città romana di Opitergium (Oderzo) con il nome di porto Candiano, che negli anni successivi cambiò nome divenendo Carmelo e poi Eracliano. La laguna di Melidissa era accessibile dal mare attraverso un’insenatura che doveva trovarsi all’incirca dove oggi è posizionato il porto di Cortellazzo mentre ad un chilometro circa dall’isola, verso l’attuale località di Fossà e Fiorentina, vi si trovava la terraferma, attraversata dalla Via romana Annia detta anche Popilia, Altinate e Orlanda, la quale collegava le grosse città romane di Altinum (Altino) a Concordia e Aquileia. L’attuale città di San Donà di Piave, Musile e tutti i paesi limitrofi non esistevano. Nella terraferma vi si trovavano molti campi coltivati disposti secondo delle perfette centuriazioni romane. Il fiume Piave non passava per l’attuale alveo, ma bensì, secondo alcuni studiosi, occupava l’alveo del fiume Musestre, partendo dall’attuale Breda di Piave, attraversando l’antico borgo di Spercenigo, Biancade, Roncade e sfociando nel fiume Sile a Musestre, per poi terminare la sua corsa assieme al Sile ad Altinum (Altino). Un altro antico ramo invece occupava l’attuale canale Piavon, passando appunto per Opitergium (Oderzo), Piavon, Cavalier, Fossalta Maggiore, Chiarano, Cessalto e Ceggia, terminando la sua corsa nella laguna di Melidissa.

Immagine tratta da Google Earth Pro e modificata. Le due linee azzurre in alto a sinistra rappresentano i percorsi del fiume Piave prima dell’anno 589 d.C. La linea rossa è il percorso indicativo della via Annia, mentre le due linee azzurre in basso rappresentano il perimetro della laguna di Melidissa – Heraclia. In giallo i nomi dei principali aglomerati urbani dell’epoca..

Con la caduta dell’Impero Romano nel V secolo d.C e l’avvenuta dei famosi barbari, nell’isola di Melidissa cominciarono ad affluire sempre più gli abitanti di Opitergium scampati e impauriti dagli usurpatori della città. Le isole, difese dalle acque marittime e fluviali diventarono delle vere e proprie fortezze inespugnabili nelle quali i nuovi popoli che invasero e distrussero l’entroterra romano non erano in grado di valicare. In queste isole si instaurò quindi un vero e proprio Stato libero che venne poi consolidato da una repubblica federativa democratica governata da tribuni. Melidissa, assieme a Grado, Caorle, Torcello, Malamocco e Chioggia costituirono un nuovo nucleo chiamato “Venezia marittima”.
“… Questo stato era in buone relazioni coi dominatori di terra ferma; che possedevano cantieri provveduti di ottimi velieri per la navigazione marina e buone barche pel traffico fluviale, esercitato col sistema dell’attiraggio tutora in uso, ed altre per la pesca; che gli abitanti delle isole erano marinai robusti, esperti, attivi, parchi, i quali vivevano modestamente in anguste capanne cibandosi di pesce; che era molto curato il commercio nei più lontani mari e che la lucrosa industria del sale era in fiore… questi abitanti andavano esenti dai mali morali che affliggevano la terra ferma… nelle isole, molto prima che sorgesse Venezia, non mancavano costruttori di navi, armaioli ed altri artefici… gli abitanti erano amanti della pulizia personale. Il vestito comune consisteva nel copricapo a mitra, giacca a sacco, calzoni larghi, sandali ai piedi, cintura con daga al fianco e una collana al collo. Il pescatore e il marinaio si distinguevano dal berretto, il cacciatore dal cappello, il soldato per l’elmetto…. si mangiava in rustiche scodelle in un unico catino, un vaso di terra serviva a dissetare tutti i commensali. Nelle isole non si conoscevano amori sdolcinati, sfibranti: in un dato giorno le fanciulle si adunavano al tempio e i giovani sceglievano fra esse la sposa. La donna era rispettata secondo la religione cristiana; la morale, la buona fede, la fratellanza, la libertà regnava sovrana… l’arte bizantina fioriva nelle isole”. (1)

L’antica laguna di Melidissa oggi terra ferma bonificata. Sullo sfondo l’attuale canale Ramo visto da Via Giovanni Battista Tiepolo.

Nell’anno 589 ci furono abbondanti piogge che crearono delle inondazioni, ricordate dagli storici come il secondo diluvio universale, che portarono ad ingrossare i corsi d’acqua e a deviare il fiume Piave. Questo abbandonò il letto del fiume Musestre e andò a percorrere l’attuale alveo sfociando a Jesolo. Il Piave abbandonò anche l’alveo del fiume Piavon il quale prese inizialmente il nome di “Plavam siccam” come viene descritta dal re dei longobardi Liutprando nel suo trattato del 712 d.C. Gli anni che seguirono questo catastrofico evento, portarono un cambiamento radicale del territorio di Melidissa, dovuto per lo più alle piene e magre del fiume Piave. L’elevata quantità di detriti trasportata dal fiume causò l’impaludamento della laguna di Melidissa e la città, che inizialmente sorgeva sopra un isola, divenne una penisola.
Dopo una serie di vicissitudini che non stò qui ad elencare, la città di Melidissa cominciò a crescere notevolmente cambiando il nome in Heraclia in onore all’imperatore bizantino Eraclio. Nella città vennero costruiti edifici importanti tra i quali la sede patriarcale di Opitergium nella quale il primo vescovo fu S. Magno. “… Ebbe i natali ad Altino dalla nobile famiglia Frezieri (fabbricanti di frecce) la quale rese poi segnalati servizi alla repubblica colle fabbriche d’armi rinomate. La sua inclinazione al sacerdozio lo rese fervente cattolico, che passato in Oderzo per sottrarsi alle persecuzioni dell’arianismo teutonico, venne ivi conosciuto ed eletto successore a S. Tiziano, IV Vescovo di quella città. Nel 638 la stessa ragione per la quale da Altino si trasferì ad Oderzo, lo indusse a trasferirsi in Eraclea colle più cospicue famiglie opitergine, dove edificò la cattedrale di S.Pietro ed altre chiese minori. Fu quindi l’ultimo Vescovo di Oderzo e il I di Eraclea. Morto dopo la metà del VII secolo il suo corpo fu sepolto nella cattedrale di Heraclea” (2) . Nella città inoltre, nel periodo del nuovo patriarca vi abitavano le famiglie dei: Donusdei, Dongiorgi, Barbolani, Tradonici e gli Erizzo.

Immagine tratta dal libro “”Eraclea Veneta, Pierluigi Tozzi – Maurizio Harari, Immagini di una città sepolta. 39 Cittanova, tenuta Moizzi: planimetria complessiva dei ruderi rinvenuti negli sterri del 1954 (rilievo di L. Fassetta, Arch. Soprint. Padova). 40 Cittanova, tenuta Moizzi: rilievo delle fondazioni del Battistero… (andati distrutti). 41… pianta con indicazioni del sito dei ruderi, su base catastale (rilievo di L. Fassetta, Arch. Soprint. Padova).


Verso la metà del VII secolo d.C. Heraclia era già considerata la maggiore città dell’estuario difesa non solo dalla laguna e dai fiumi, ma anche da alte e possenti mura di cinta merlate e contava circa 90000 abitanti. Nel 662 d.C quando Grimoaldo divenne imperatore dei Longobardi, una nuova ondata di opitergini, che nel frattempo erano ritornati ad abitare la terraferma e quindi anche la città di Opitergium, ricominciò a riversarsi nelle isole della laguna heracliana. “Questi opitergini longobardi, sfrattati da Grimoaldo, al pari degli opitergini bizantini fuggiti all’aspro selvaggio di Rotari, presero la direzione d’Eraclea, e non potendo tutti abitare in questa città si divisero in tre parti, la principale delle quali si fermò in Equilio, dove trovò asolani e feltrini fuggiti molto prima alle irruzioni barbariche, ed ivi, col materiale trasportato da Oderzo per le vie acquee, costruirono templi e palazzi sontuosi che trasformarono in modesto lido in una grande città appellata a Iesolo. Le altre due parti minori trovarono posto a Eraclea e Torcello (già abitata dai profughi di Altinum)… Iesolo dopo qualche lustro divenne una città fortificata anche dalla parte di terra, al pari di Eraclea, e fu dimora di ricche famiglie di negozianti e di artisti con 42 Chiese.”

Le rovine dell’antica Cattedrale di Santa Maria Assunta di Jesolo paese fotografate nel giugno 2017 in via Antiche Mura. “La costruzione risale ai secoli VI-VII d.C. e con i suoi 192 mq ampliava la precedente aula basilicale già al IV-V secolo d.C… La basilica non dovette probanilmente subire distruzioni in occasione dell’arrivo delgi Ungari alla fine del X secolo d.C. e venne frequentata finchè non si sentì l’esigenza di erigere un edificio più maestoso, segno di una rinascita civile della comunità jesolana proprio agli albori del II millennio d.C.” Alcune centinaia di metri dalle rovine della cattedrale vi si trovano quelle dell’edificio sacrale di S.Mauro vicino al quale passava il canale omonimo… Non lontano dall’area archeologica troviamo il centro del paese di Jesolo. “Esso nelle fonti di età medievale e moderna figura con diverse espressioni omologhe (Equilium, Equilio, Giesolo, Giesulo, Esulo, Iexulum, Iesulum) e solo nel periodo tra il XVI secolo e il 1929 venne chiamato Cavazuccherina, nome mutuato da Alvise Zucharin, autore di meritetorie opere di bonifica (sono note anche le varianti Cava Zucarina, Cava Zuccarina, Cavazuccarina, Cavazuccherina, Cava Nova).” Equilio deriva da cavallo e pertanto dall’allevamento dell’animale nel periodo dei Veneti antichi. Informazioni tratte dal libro “De petra que habemus in Equilo, Guida ai reperti archeologici ed epigrafici provenienti dall’antica Jesolo a cura di Alberto Ellero, Edizioni V.O.

Col passare degli anni l’influenza longobarda di Equilio tentò a più riprese di sopraffare quella bizantina di Heraclia ribellandosi a quest’ultima e portando così le due città a guerre sanguinose. Oltre a questa lotta fraticida, cominciarono ad apparire nel mare Adriatico i primi pirati istriani, liburni e dalmati, invidiosi del fortunato commercio degli isolani, che cominciarono a depredare le navi provenienti dall’oriente. Per difendersi da questi attacchi, nel 697 d.C. venne indetta nella cattedrale di S. Pietro Apostolo di Heraclia un’adunanza generale dei rappresentanti delle isole che portò alla nomina di un Duca (Doxe o Doge) con lo scopo di: dichiarare la guerra e concludere la pace, convocare e presiedere la rappresentanza nazionale, dare esecuzione alle leggi, giudicare in grado d’appello, convocare le assemblee per la nomina dei Vescovi e vegliare al bene della patria e al mantenimento dell’ordine. La repubblica federativa divenne unitaria. Con la votazione di tutti i cittadini delle isole di ogni ceto venne nominato primo Doge Paoluccio (Lucio) Anafesto. “Sua prima cura fu quella di comporre il dissidio fra Iesolo ed Eraclea, e riuscì a far tacere invidie odi e rancori. Si dedicò quindi con prodigiosa alacrità all’aumento delle navi da guerra, alla miglior fortificazione di Eraclea, Iesolo ed altre isole minori e alla difesa della terra ferma, assistito da Marcello Tegagliano capo dell’armata. Conchiuse un trattato d’amicizia col re longobardo e, duca del Friuli per la libertà del traffico, comprendendo in esso la descrizione dei confini del territorio della repubblica…”. (3) In seguito a questo trattato vennero erette delle torri per presidiare i confini e la maggiore di queste fu quella di Fines posta dove oggi sorge la località di Mussetta di San Donà di Piave. Tra i successori di Paoluccio Anafesto bisogna ricordare il Doge Orso Ipato (726-736 d.C.) che tra le sue attività riuscì ad ammaestrare i cittadini alla difesa della propria patria, alla guerra e all’utilizzo delle armi. Con ottanta navi attaccò Ravenna, che all’epoca era una città longobarda che si affacciava al mare. Dopo questo episodio che portò alla vittoria, “Venezia marittima” divenne una fra le più grandi potenze navali temuta da tutti i lontani lidi. Col passare degli anni, con le continue lotte sanguinose tra iesolani ed eracleiani e con la trasformazione della laguna di Heraclia da penisola a terra ferma paludosa non più difendibile, venne deciso di trasferire la capitale in un primo momento a Malamocco e successivamente a Rialto. Per la costruzione dei nuovi edifici nella capitale di Rialto vennero smantellati tutti quelli vecchi di Heraclia, comprese le antiche mura di cinta. Nella città vecchia rimase solamente la cattedrale periodicamente visitata nelle occasioni più importanti. Da ricordare che il primo palazzo ducale a Rialto venne eretto dal Doge Angelo Partecipazio nel 814 d.C. Iniziò così una nuova era, quella di Venezia.

L’attuale abitato e la chiesa di Cittanova visti dal canale Ramo.

Heraclia in un primo momento, pur ridotta ad una cava, non venne del tutto dimenticata. Il doge Angelo Partecipizio, originario del luogo, pensò bene di costruire sul posto un palazzo di villeggiatura dal quale ne uscì una nuova borgata che prese il nome di Cittanova. Succedettero altre devastazioni dovute agli slavi meridionali e agli ungari che devastarono il primo palazzo, ma il Doge non abbandonò l’idea di costruirne un altro. Nel X secolo d.C il territorio di Cittanova, completamente asciutto dall’acqua, divenne un’area coltivata ad opera dei frati benedettini. Seguirono altre disgrazie dovute a inondazioni, che coprirono il territorio con un metro di sabbie melmose, ci furono dei terremoti, delle carestie e infine la peste universale del 1342. L’area di Cittanova venne quindi completamente abbandonata. Oggi Cittanova è una località divisa tra i Comuni di San Donà di Piave ed Eraclea (la vecchia Grisolera che cambiò il nome il 4 novembre 1950 con un decreto dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi). L’attuale paese, diviso in due dal canale Ramo, è sorto in seguito alle grandi bonifiche del novecento ed posizionato vicino ad una idrovora costruita nel 1903 per raccogliere l’acqua del canale e riversarla nel canale Brian dietro il manufatto. Nella località vi si trovano un paio di case, una chiesa e una scuola dell’infanzia. La vasta area bonificata che circonda il paese è adibita ad agricoltura. Dell’antica città di Heraclia ne rimane ben poco e ancor oggi riaffiorano dal terreno alcuni reperti. Qualche testimonianza di questi è presente nel museo archeologico di Oderzo e in quello della Bonifica del Basso Piave a San Donà di Piave. Molti altri sono andati completamente distrutti.

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La città sepolta di Heraclia – Ritaglio e modifica della foto aerea zenitale dell’area di Cittanova, Enel Piave 1977, strisciata 7, fot. 128, del 2,VI; scala 1:15.000 circa: particolare. Immagine tratta dal libro “Eraclea Veneta, Pierluigi Tozzi – Maurizio Harari, Immagini di una città sepolta.

Didascalia

(1), (2), (3) dal libro di “Teodesigillo Plateo, Il territorio di S.Donà nell’agro di Eraclea, Cenni storici pubblicati a beneficio della Società Operaia Giuseppe Garibaldi.

Progetti per Heraclia

IL GAZZETTINO 10 SETTEMBRE 1984 – Heraclia, città sepolta riemersa dall’oblio – Un miliardo e il “piano Heraclia” è partito. In maniera molto decisa, il presidente della Regione del Veneto, prof. Carlo Bernini, ha rotto gli indugi. Ha convocato le due Sovrintendenze, alle Antichità del Veneto e ai Monumenti di Venezia, ha radunato i responsabili dei tre comuni interessati, ha fatto venire a Venezia i professori Tozzi e Harari, dell’Università di Pavia, i rappresentanti della Provincia. Ha affidato ai suoi tecnici l’opera di coordinamento, varato un comitato esecutivo e fatto predisporre un programma di primo intervento. Obiettivo: riportare Heraclia alla luce. Nel giro diun paio d’ore, per opera di due fotografie aeree, si è fatto quello che in oltre ottant’anni, per imperscrutabili ragioni, doveva essere fatto. Il piano completo: fasi di intervento suddivise in momenti successivi, prima il vincolo archeologico poi indagini campione. Individuati gli strumenti finanziari (un miliardo), i settori di competenza, il “piano Heraclia” è partito. Di gran fretta. La Giunta Regionale ha deliberato mezzo miliardo e lo ha inserito nel bilancio di previsione per il 1985. Ora tocca alle amministrazioni locali, Provincia e comuni (Torre di Mosto, Eraclea, San Donà) stanziare l’altro mezzo miliardo. Senza sponsor e senza esitazioni si realizza dunque l’antico sogno del compianto professor Roberto Cessi, docente di Storia all’Università di Padova che per “cercare” Venezia aveva consumato le scale dell’Archivio di Stato dei Frari e investigato nei polverosi armadi, qui e là, in parrocchie e palazzi nobiliari. Ma tanto l’allora sovrintendente, prof Brusin, quanto l’attuale, prof.ssa Scarfi avevano problemi di personale e di bilancio. Adesso però… Il prof. Tozzi era stato ermetico “parlerò solo a dicembre, quando uscirà il mio libro”. L’altro giorno, invece si è sbottonato e ha mostrato, in maniera molto riservata, il suo “tesoro”, nuove riprese aeree. Molto più spettacolari. Intanto il sindaco di Eraclea continuava a sostenere che “li sotto” non c’è nulla. E’ comprensibile, le aziende agricole interessate nel territorio di sua competenza, e la paura del filo spinato fa tremare gli agrari. Ma a questo non si arriverà, il prof. Bernini ha pensato anche a questo. – L’archeologia dei trattori. Heraclia, città abbandonata e sepolta, vissuta l’effimera stagione di due secoli, dal VII a IX, nel più buio del Medioevo. Luogo di emergenza per magistrature bizantine sedenti a Oderzo dopo la presa di possesso della terraferma veneto-friulana da parte dei Longobardi. Luogo di trasloco per pietre e patrizi con la coorte delle loro clientele, Heraclia rappresenta l’ultimo sussulto nel veneto dell’antico sistema senatorio romano. Heraclia, castrum fondato per necessità, fu usato quel tanto che serviva; quindi divenne involucro vuoto da dimenticare. Senza fascin. Frettolosamente bizantino da dedicarsi a un imperatore lontano; strumento di una lotta su troppi fronti di un Impero Orientale in sfaldamento. Totalmente medievale, almeno nel senso dell’effimero di lagune impaludate, di scorrerie, epidemie e inondazioni; contraddittorio per la fazione, gli accordi, separati con gli invasori e i vescovi in guerra tra loro per il primato delle diocesi e delle decime. Heraclia è stata riscoperta, con clamore. Due fotogrammi di una normalissima campagna di rilevamento aereo dell’Enel, uno studioso di storia particolarmente versato in fotointerpretazione e il gioco e stato facile: questa è la città. Con un piccolo “Canal Grande”, rii e calli come Venezia, la città sepolta è radiografata, topograficamente definita. Però tutti sapevano – studiosi e contadini – che la città c’era. Si faceva un canale di scolo e spuntava un’architrave di sedici metri; si sbancava un dosso e veniva fuori una tomba – pietre e ossa. Una vera orgia di relitti scomposti, cocci, vetri rotti e frammenti di lapidi. Adesso col senno di poi, prendono corpo tutte le voci – vere e false – circolate negli ultimi anni: pare che qualcuno abbia trovato una statua e se la sia venduta; che un altro abbia trovato un pugnale lavorato, venduto anch’esso. A qualche altro viene in mente che, una volta, sono venuti quelli della Sovrintendenza di Padova a fare degli scavi di assaggio. E avevano trovato parecchio. Le fondamenta di un battistero erano state però subito smantellate dai proprietari. La Sovrintendenza li aveva denunciati ma della cosa non si è saputo più nulla. Poi niente altro se non una cronaca sussurrata, a livello di curiosità, di altri rinvenimenti: qualche pozzo, qualche frammento di lapide. Povere cose. Questo è continuato per anni, almeno fino all’altro ieri, dal 1902, data del primo rinvenimento ufficiale. Tra la pianura degli espropri e le minacce a chi avesse divulgato notizie, in un clima di incomprensione e di generale indifferenza, i mezzadri smentivano tutto e il contrario di tutto. Al “non so niente” detto agli sconosciuti si alternava invece la visita al granaio per gli amici e, scostate le pannocchie, ecco una lapide, un pezzo di trabeazione, un vasetto. Oggi il cronista calpesta le sciagurate spoglie della città abbandonata e sepolta che ha l’aspetto di un gigantesco campo di mais. I cartelli indicatori puntano in basso e indicano “dekalb” “peruviano” ed altre qualità di sementi. A terra però cocci non se ne vedono, l’argilla è giallastra, con solo qualche sasso. Sullo sfondo dei reticolati di un’ampia zona militare spiccano le case coloniche restaurate, con l’alluminio dorato alle finestre, la Golf metallizzata davanti alla porta. Come in tutto il resto del Basso Piave. Heraclia, vecchia matrigna di venezia, potrebbe benissimo non essere qui. Heraclia, vien da pensare, è palude da sfuggire, malaria e banditi slavi da dimenticare, come la fame e la pellagra, di questi ultimi anni Quaranta e Cinquanta. I figli dei coloni allora avevano scelto la Papa, stipendio sicuro, lavoro in fabbrica. Sui campi erano rimasti vecchi dal dialetto duro e incomprensibile, mezzadri e coloni a contratti da fame. Ma è acqua passata. Heraclia è oggi altrove: Grisolera nel 1951 diventa Eraclea, che ha figliato Eraclea Mare con alberghi di terra e Yacht Club, non la mitica e nobile isola di Melidissa da cui vantano improbabile origine i sandonatesi. Segni dei tempi, voglia di origini. Il mezzadro è diventato borghese; Qui la gente è concreta come i danni della grandine e come l’aumento della produttività col mais di una certa marca; si guarda al futuro sulle cose reali, non inseguendo miti. Della cosa di Heraclia si parla con tono distaccato, quasi si trattasse di un avvenimento lontano. Nulla di più di una curiosità. Chi non è insensibile è il gastaldo – una volta si chiamava così – di una grossa azienda agricola interessata dalla scoperta e di proprietà di una facoltosissima famiglia veneta. Alla vista dei cronisti è andato su tutte le furie: “Io lo so che mestiere fa lei. Gran brutto mestiere. Invenzioni, fandonie. Ma ve ne accorgerete, farete u passo falso e allora… Voi da me no saprete nulla: anche da quel professore di Pavia e non venite a scocciare. Se ne vada!”. Il tutto davanti a due dipendenti, perchè i padroni sappiano. Lo spauracchio del filo spinato, o peggio, dell’esproprio, davanti a una coppia di fotogrammi ripresi dall’aereo è grande. Qui la terra ha significato sangue e sudore, è stata conquistata anno per anno prima in senso agricolo con le bonifiche, poi in quello militare durante le battaglie del Piave e infine di nuovo agricolo dalla ricostruzione in poi. Molti operai ex-contadini oggi sono piccoli proprietari; per questo “quei quattro sassi marci” di Heraclia spaventano tanto. Il proprio ettaro è un simbolo sociale, l’affrancamento raggiunto, una piccola ma non insignificante rendita. Heraclia è scomoda, pare. “Averla così sotto gli occhi, sulla pagina spalancata del Gazzettino e guardare questi campi mi fa sentire a disagio” mi confida un signore che abita da queste parti. “I campi sono campi, ci cresce il mais, la vigna – mi dice un altro nel cui terreno si dice siano stati trovati pezzi di marmo – cosa c’entra una città sepolta, mica siamo a Pompei. Eppoi di roba sepolta ce n’è tanta ad Altino, che scavino laggiù. Anche a Millepertiche trovano lapidi e vasi rotti. Ci sarà un’altra città sepolta anche là. Così facciamo una bella zona archeologica, buttiamo via i trattori e ci comperiamo le macchinette per forare i biglietti d’ingresso ai turisti”. Viene da pensare all’archeologia degli inizi, quando scavare e trovare il passato equivaleva a leggere la profezia di u futuro possibile: Winckelmann, Goethe e il mito della storia. Eppure già allora il famoso George Berkley in viaggio in Italia nei primi del 1700 scriveva ad Alexander Pope che tal paese veniva svenduto come “la terra degli aranci e delle rovine, la terra dei morti”. Cosa rispondere a questa gente che teme per il proprio futuro. Una città sepolta: che fare? I suoi antichi abitanti l’abbandonarono per trasferisri là dove era sorto il nuovo potere: si portarono dietro le pietre illustri – quelle di Opitergium e di chissaddove – elasciarono servi e tuguri, fondamenta e rottami a marcire sottoil limo del Piave. Se non importò a loro, dicono i contadini, perchè dovrebbe importare a noi. E’ un atteggiamento del quale mi pare saggio non stupirsi.

IL GAZZETTINO del sabato 25 ottobre 1986 – Heraclia rimane città sepolta. La burocrazia rinvia i lavori – Dopo il tanto clamore suscitato dalla notizia c’è ancora la volontà di riportare alla luce l’antica Heraclia, la città eretta nel 600 dopo Cristo dai sopravvissuti dalla distruzione di Oderzo e che fu progenitrice di Venezia sepolta tra i campi di cittanova, tra San donà e Eraclea? E’ quanto si chiede la gente a quasi tre anni dalla straordinaria scoperta della città sepolta; fatta dai professori Pierluigi Tozzi e Maurizio Harari. All’epoca ci fu notevole entusiasmo. La Regione Veneto stanziò la somma di 500 milioni per consentire i primi interventi, altretanti soldi dovevano venire dalla provincia e dai comuni di San Donà, Eraclea e Torre di Mosto. Oggi quell’entusiasmo sembra si sia notevolmente smorzato. C’è anche da chiedersi che fine abbiano fatto quegli stanziamenti. Non sarebbe da meravigliarsi se non esistessero o che fossero stati stornati dai bilanci dei vari enti. “Mi auguro di non venire mai più in queste zone – dichiarò quasi un anno fa il professor Tozzi – finchè in una delle tante tavole rotonde organizzate su Heraclia – finchè non si farà almeno un buco sia pure superficiale, per riportare alla luce questa città che rappresenta una documentazione unica di testimonianza della civiltà medievale veneta”. Il buco, e sono passati tanti mesi, non è stato fatto, entusiasmo e interesse sono scomparsi, inghiottiti dalla città sepolta. Riportare alla luce, sia pure in parte, Heraclia, per gli interessi storici e archeologici del sandonatese è un impegno che non deve essere disatteso. Il filo del discorso deve essere ripreso per riportare alla luce questa città che può destare un grande interesse anche ai fini dell’industria turistica. Occorre avere coraggio per superare diffidenze e interessi particolari: le difficoltà burocratiche devono essere superate, i fondi reperiti. Heraclia non può rimanere interrata sotto i campi di grano e i vigneti, non può essere una città fantasma. Gianfranco Bedin.

L’attuale Idrovora di Cittanova
La lapide posta sulla facciata principale dell’idrovora di Cittanova. Si legge: CONTRO LA MORTA PALUDE CHE ANCORA AI PRIMORDI DEL SECOLO LAMBIVA L’ABITATO DI S.DONA’ DI PIAVE GENEROSA AUDACIA DI PIONIERI INIZIO L’IMPARI LOTTA – IN FERMISSIMA UNIONE DI FEDE DI VOLONTA’ DI PROPOSITI TECNICI IMPRENDITORI MAESTRANZE COL PROVVIDO CONCORSO DELLO STATO STRAPPARONO ALL’AQUITRINO LA TERRA CHE DISSODATA DAL VOMERE FECONDA OFFERSE ALLE OPEROSE GENTI NUOVO CAMPO DI VITA E DI LAVORO – LA BONIFICA DISTRUTTA NEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE RISORTA ED AMPLIATA SI AVVIA OGGI NELLA SALUBRE PIANA LIETA DI GENTI DI VILLE DI OPERE VERSO LE SUE MIRABILI METE – COMPIENDOSI IL PRIMO CINQUANTENNIO IN QUESTA CENTRALE CHE SORGE OV’EBBE VITA E GLORIA ERACLEA L’AMMINISTRAZIONE DEL CONSORZIO ONGARO SUPERIORE PONE A CELEBRAZIONE DEL PASSATO A FELICE AUSPICIO DELL’AVVENIRE – 30 SETTEMBRE 1956

4 thoughts on “La città di Heraclia

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  1. Su fines a mussetta non sono assolutamente d’accordo,ho anche qualche altro ,quello su fines è sicuramente tratto dal pavanello, comunque complimenti e grazie dell’articolo Tiziano zanchetta.

    1. La ringrazio molto per il commento. Per quanto riguarda Fines, nel libro di Giuseppe Pavanello, “La città di Altino e l’Agro altinate orientale”, leggiamo: “Certo sulle rive del Piave (forse tra Musile e Zenson) sorgeva una grossa borgata denominata Finis molto nota per il commercio ai tempi di Costantino Porfirogenito, che la disse città, ed a quelli di Lotario”. Nel libro di Teodesigillo Plateo “Il territorio di S.Dona’ nell’agro di Eraclea” leggiamo: “…Quanto al punto dove è esistito il fiorente paese siamo d’accordo col Prof.Agnoletti che sia lo stesso in cui oggi si trova S.Dona’ accanto alle Mussette, che sono appartenute alla Marca trivigiana… È accertato poi che la chiesa di questa borgata ha servito agli abitanti di S.Dona’ fino al 1470… Quanto al punto del centro abitato, si può ritenere poco lungi dall’attuale abitato centrale di S.Dona’, verso la stazione della ferrovia”.

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